Diceva il
semiologo russo Vladimir Propp che "i popoli si capiscono a vicenda
attraverso le favole". Anche se il quarantenne Charley Crockett
da San Benito, Texas, non deve aver mai letto, a occhio e croce, una
sola riga dei libri dello studioso di San Pietroburgo, senz’altro non
gli manca la consapevolezza di come certe stereotipie - personaggi tipici,
scenari ricorrenti, finalità educative o ammonitrici - siano non solo
d’uso comune ma addirittura, talvolta, necessarie. A cosa? A mettere preventivamente
a proprio agio il pubblico al quale ci si rivolge, a rassicurarlo circa
gli stati d’animo, gli ambienti e le finestre percettive in procinto d’essere
attraversate durante la visione di un film, la lettura d’un libro o, appunto,
l’ascolto di un disco.
Non sappiamo né sapremo mai, infatti, quanto della biografia di Crockett-
dall’infanzia trascorsa con fratelli e madre nubile in un sudicio parcheggio
per camper alle turbolenze dell’adolescenza, dagli arresti per spaccio
alle operazioni al cuore, dai pellegrinaggi in autostop per mezza America
alla contrattualizzazione discografica (ottenuta, pare, esibendosi per
strada) - appartenga alla realtà e quanto, invece, alle mistificazioni
del marketing. Reale o inventato, il profilo del musicista ha tuttavia
il compito di stabilirne il raggio d’azione e di suscitare un’empatia
immediata in chi, davanti a ribelli e outsiders di vario genere, proprio
non sa resistere. Non solo, perché il controverso passato di Crockett
svolge inoltre il compito di assicurare credibilità e affidabilità alla
sua postura anti-establishment, al suo atteggiamento trasversale in cui
l’assoluto rispetto verso l’antico canone di Nashville (soprattutto quello
più contaminato dalle sonorità blues, soul e cajun invalse nelle regioni
costiere affacciate sul Golfo del Messico) si sposa a un altrettanto radicale
disconoscimento delle sue derive più commerciali e generiche.
Come prevedibile, la figura di Crockett e i suoi dischi, peraltro quasi
tutti eccellenti a dispetto di una prolificità cui sarebbe forse il caso
di dare una regolata (se non altro per scongiurare il rischio di ripetersi),
suscitano talvolta l’impressione di far parte d’una "operazione"
costruita a tavolino anche se non per questo respingente: nondimeno, se
il suo lavoro migliore resta lo spumeggiante Live From The Ryman
dello scorso anno, è perché la dimensione dal vivo, annullando la "quarta
parete" intrinsecamente costituita da quella in studio, consente
alle canzoni, alla loro messa in opera e, sì, anche agli archetipi in
esse utilizzati con indubbia disinvoltura, di respirare in modo più genuino
e contagioso.
Quanto Crockett sia cosciente del fatto di interpretare un ruolo (appunto
quello del "cavaliere elettrico" attratto da marginalità e irregolarità)
lo manifesta egli stesso non solo facendosi ritrarre, in copertina, accanto
a un banco dei pegni, ma nelle strofe della title-track di questo $10
Cowboy (suo diciottesimo o diciannovesimo album!), che è un po’
la sua versione della Rhinestone
Cowboy (1975) di Glen Campbell, ossia una parabola sulla necessità
di tener duro anche nei periodi di magra, per arrivare un giorno alla
gloria (ma dimessa, posticcia e malinconica, da bigiotteria di poco conto)
d’un horseman vestito di strass. Anche Crockett si riconosce nei panni
del cowboy dozzinale e artificioso, così al corrente dell’ambiguità del
suo discorso da tirare in ballo persino il crepuscolo (artistico) di William
C. “Billy” McClain, comico e danzatore afroamericano di fine ‘800, stella
indiscussa degli (oggi) esecrati minstrel-shows in cui tutti i
luoghi comuni riconducibili ai cittadini di colore venivano messi in scena,
per il divertimento degli spettatori bianchi, di città in città.
Preso atto del "contesto" in cui ha trovato origine, $10
Cowboy si presenta per l’ennesima volta sanguigno, caloroso e sognante
come potrebbe esserlo un inappuntabile rimescolamento tra lo swing di
Bob Wills, il country di Ernest Tubb, il soul al caramello di Bill Withers
(esplicitamente citato nella distensione ritmica di Gettin’ Tired Again)
e le virili narrazioni del Kris Kristofferson più annerito. Dal magistrale
affondo gospel di Hard Luck & Circumstances (con
i cori di Angela Miller e Lauren Cervantes dei Black Pumas) all’affresco
tra folk e soul di una America addirittura caratterizzata dall’influenza
di Bobby Womack, dai misurati rintocchi elettrici di Diamond In The
Rough al puro e incontaminato rock and roll di Solitary
Road (con un intreccio di chitarre e tastiere derivante dai
capisaldi del cosiddetto Philly-soul), Crockett non solo non sbaglia un
colpo, ma consegna alle stampe il suo lavoro più black, pieno di sinuosi
duelli tra organi e sassofoni, sintonizzato sull’umore sensuale di un
pomeriggio sudista all’insegna di alte temperature e malinconie assortite
(dite voi, per esempio, se la City Of Roses dedicata ai sobborghi
del Texas orientale non sarebbe potuta appartenere al repertorio di Jeb
Loy Nichols).
L’atmosfera piovosa e jazzy della penultima Lead
The Way rievoca l’espressività struggente di Terry Callier
(e non è un’iperbole), mentre la conclusiva Midnight Cowboy - ulteriore
omaggio alle composizioni del conterraneo Willie Edwards i cala il sipario
sull’intero $10 Cowboy tramite un feeling cinematografico
alla Ennio Morricone, giusto per ribadire ancora una volta quale sia la
differenza tra il mito e le sue rappresentazioni. Quella di delineare
e rispecchiare mitografie classiche, nondimeno, è un’arte difficile, e
Charley Crockett dimostra di padroneggiarla al punto di convincerci che
la "favola" (tanto per tornare a Propp) dello scadente cowboy
"da dieci dollari", ancorché sentita migliaia di volte, sia
comunque sempre vera.