Dopo quattro album licenziati
dalla meritoria Paradise of Bachelors, Jake Xerxes Fussell approda
nei ranghi della più blasonata Fat Possum, ma senza dare particolari scosse
a una visione estetica che era già ben delineata fin dal primo
vagito discografico (correva l’anno 2015) e senza mostrare la volontà
di battere strade troppo lontane da quelle che gli hanno fin qui attirato
lode e ammirazione pressoché incondizionate. Anzi, dove la precedente,
penultima fatica, apriva timidamente alla scrittura personale (su Good
and Green Again ben quattro brani portavano la sua firma), When
I’m Called torna a scavare (quasi) esclusivamente nel repertorio
tradizionale, concedendosi solo qualche eccentricità nella scelta delle
fonti cui attingere. E’ il caso per esempio della canzone che intitola
l’album, che nasce da una sorta di decalogo del bravo studente ritrovato
su una rivista (“Risponderò quando mi chiameranno, non ballerò la breakdance
nei corridoi, non riderò durante l’appello…”), cui Fussell dona un accompagnamento
elettro-acustico piacevolmente caracollante e vagamente jazz.
Anche la spartana Andy, che inaugura
la tracklist con una nota di malinconia quasi tex-mex, ha un’origine particolare:
è stata composta da un pittore e artista visuale, Gerard Gaxiola, che
si faceva chiamare “The Maestro” e che negli anni ’80 si inventò un festival
a cui cercò di invitare Andy Warhol (a lui la canzone è dedicata…). Per
il resto, come il buon Jake ci aveva già piacevolmente abituati, su When
I’m Called troviamo canti di marinai, blues, folk songs pescate da
quel patrimonio di field recordings che ha costituito per decenni il controcanto
rurale dell’America più marginale e che viene restituito alle nostre orecchie
riplasmato con l’abituale freschezza e capacità affabulatoria e immaginativa.
Cuckoo! per esempio si serve di una giravolta di archi che dà ariosità
al brano, mentre in Gone to Hilo il baritono di Fussell si fonde
con la dolcezza della vocalità di una ritrovata Robin Holcomb. La conclusiva
Going to Georgia poi è pura “cosmic
american music”, capace di evocare spazi deserti e assolati. L’unica scelta
di una qualche notorietà è la ballata tradizionale inglese One
Morning in May, ripresa anche da James Taylor in un suo disco
dei ’70, e che nelle mani di Fussell diventa un valzer dagli accenti raga
(Davey Graham avrebbe apprezzato).
Il segreto del posto speciale che questo chitarrista del North Carolina
occupa nell’ampio panorama del tradizionalismo folk a stelle e strisce
è stato già ampiamente svelato e ad ogni uscita tocca ripetersi, ma lo
facciamo volentieri: Fussell non tratta la materia con rigida e scrupolosa
devozione filologica, ma si comporta piuttosto come il bambino che gioca
con gli oggetti polverosi ritrovati in solaio, trasformando cimeli di
nonni e bisnonni in materiale ludico da maneggiare con spirito appassionato
e volontà di ricavarne piacere. Lo assiste, di ritorno dopo che aveva
già prodotto il disco precedente, James Elkington e al gioco partecipano
diversi altri tradizionalisti dalla mente aperta e dall’approccio non
scolastico, come il chitarrista Blake Mills o la chanteuse folk Joan Shelley.
Come ci suggerisce l’immagine di copertina, Jake Xerxes Fussell non si
perita di procedere tranquillo per la sua strada pur guardando dietro
di sé: oggi come oggi non sono molti a percorrere le “roots highways”
con questo spirito. Lunga vita a lui, quindi.