Il tempo
dell’attesa è ormai una rarità nel mondo contemporaneo, a maggior ragione
nella musica, schiacciata dal qui e subito dell’era dello streaming. Nel
caso di Gillian Welch e David Rawlings, coppia delle meraviglie
del folk americano, è invece un prezioso alleato per aumentare l’aura
di sacralità intorno alle loro uscite discografiche, uno dei pochissimi
esempi di forza artistica che corre di pari passo con il gesto della stessa
composizione musicale, centellinata con la pazienza di un artigiano che
scolpisce e incava il legno, materiale del cui profumo terrigno e antico
sembrano fatte le ballate del duo.
A tredici anni da The
Harrow and The Harvest, l’ultimo album di materiale originale della
coppia, e accreditandosi per la prima volta in carriera con entrambi i
nomi (era avvenuto soltanto con l’album di cover e tradizionali del 2020,
All the Good Times Are Past & Gone) Welch e Rawlings condividono
più che mai in profondità gli alti e bassi vissuti in tempi recenti, prendendo
ispirazione da quei Woodland Studios, il loro “eden” sonoro dove tutto
nasce, rifugio artistico che ha rischiato di scomparire per sempre sotto
i colpi sferzati dal violento tornado che ha travolto Nashville nella
primavera del 2020. Tetto scoperchiato, nastri e strumentazione danneggiati,
il luogo è stato ricostruito con pazienza, ancora oggi non del tutto ripristinato;
la stessa pazienza che sembrano infondere le melodie oniriche, sospese
e dolcissime che i due musicisti creano tenendosi in equilibrio miracoloso
fra continua evocazione del passato e sensibile cronaca del presente americano.
L’effetto è di fluttuare tra versi di gioia, desiderio e disperazione,
avulsi da qualsiasi riduzione di stile e genere, sebbene siano inevitabilmente
considerati un faro per l’attuale scena Americana, con la capacità infine
di diventare “eterni” e per nulla prigionieri della contingenza. Lo sono
certamente le voci dei protagonisti, tuttavia con un cambio di dinamiche
e registri che ha quasi dello sconvolgente per la storia stessa di Gillian
Welch & David Rawlings: Empty Trainload of Sky
annuncia la "novità", con la presenza di una sezione
ritmica, basso e batteria di Brian Allen e Chris Powell, per la prima
volta da tempo immemore (pochissime eccezioni negli album precedenti),
e da qui tutta una serie di altre, all’apparenza impercettibili, eppure
sostanziali “alterazioni”.
Tra queste ultime, gli archi che ammantano la fragile melodia di What
We Had, per esempio, canzone che anela al Neil Young più dolciastro
e malinconico, l’impiego a tratti di pedal steel (Russ Pahl) e violino
(c’è anche quello dell’amico Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show),
ma soprattutto un più spiccato e vicendevole sostegno fra Gillian e David,
che si alternano al canto solista per poi riunirsi ancora in un’entità
sola.
Cogliendo apertamente dalla tradizione – dalla Danville Girl cantata
da Woody Guthrie che appare in Here Stands a
Woman al Leadbelly citato sotto traccia in Lawman –
ma al tempo stesso generandone una propria, Woodland attraversa
i punti cardinali della musicalità del duo, il tepore acustico e l’armonia
degli intrecci chitarristici (magnetico come sempre il lavoro solista
di Rawlings), restituendone a volte una visione diafana in The Bells
and the Birds, o in Hashtag, quest’ultima
dedicata alla memoria del mentore Guy Clark (You laughed and said the
news would be bad/ If I ever saw your name with a hashtag), altre più
concreta e rurale nella favola roots di The Day the Mississippi Died
e in una Turf the Gambler che, sarà
il fendere dell’armonica o la lieve danza del racconto folk, pare uscire
dalla penna di Bob Dylan all’epoca di Pat Garrett & Billy the Kid.
Al magico e scarno binomio chitarra e banjo di Howdy Howdy, rigorosa
fotografia acustica del duo, è rimesso il commiato finale, ode al lungo
legame artistico e di affetti fra Gillian e David, mai come in questo
Woodland un corpo e un’anima che riecheggiano all’unisono.