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Chris Eckman
The Land We Knew the Best
[Glitterhouse/ Goodfellas 2025]

Sulla rete: chriseckman.net

File Under: into the wild


di Fabio Cerbone (01/02/2025)

Il forte richiamo all’ambiente naturale in copertina, quei boschi della Slovenia che hanno accolto Chris Eckman come una seconda casa (da anni vive e lavora a Ljubljana), suggerisce immediatamente il manto sonoro che avvolgerà le canzoni di The Land We Knew The Best, nuovo capitolo di un affascinante percorso solista per l’ex voce dei Walkabouts, che si è fatto sempre più atmosferico, dilatato e accogliente nella placida andatura che contraddistingue le sue ballate "folk-rock". Il secondo elemento di quest’ultima definizione è forse quello che mancava maggiormente nei lavori precedenti, per esempio in quello splendido noir acustico che avvolgeva l’intero corpo ossuto di When the Spirit Rests, mentre oggi qualche bagliore elettrico riaffiora strada facendo.

Inciso con la sezione ritmica che lo accompagna spesso anche dal vivo, Žiga Golob al contrabasso e BlaŽ Celarec alla batteria, e sfruttando i contributi di Alastair McNeill (Róisín Murphy, Kreda) tra seconde chitarre e tastiere, The Land We Knew The Best si presenta con una struttura più arrangiata, eppure aulica al tempo stesso, non perdendo di vista quella essenzialità musicale che ormai caratterizza il songwriting di Eckman. La sua voce nel trittico iniziale, quasi da accogliere come unico paesaggio melodico, rimane sempre quieta, profonda tanto nelle liriche quanto nella musica che ne sottolinea le meditazioni: Genevieve ondeggia docile per sei minuti su diafane note di piano e chitarra, tra piccoli “rumori” di fondo e supportata dalla seconda voce femminile di Ana Kravanja, mentre Town Lights Fade è letteralmente una passeggiata tra i boschi della Slovenia con l’anima musicale che anela alla terra americana lasciata tempo addietro, fino ad abbracciare l’antico canto country folk in Running Hot.

Sebbene più luminoso del suo predecessore, The Land We Knew The Best fino a qui appare come una variante di quanto indagato da Eckman con raggiunta maturità artistica in anni recenti, eppure il corpo centrale dell’album ("soltanto" otto brani, ma tutti mediamente ampi) svela improvvisamente due episodi che riaccendono una vecchia fiaccola elettrica che non può non riportare ai giorni dei Walkabouts: Buttercup è dylaniana nell’incedere e asciutta nel tenere insieme i tremiti folk rock della band e le parole stesse di Chris Eckman, ma la vera sorpresa è l’errare vagamente psichedelico delle chitarre nella successiva Laments, cuore pulsante del disco e sorta di vetta da cui si potrà poi serenamente scendere a valle, magari per raggiungere quella baita in copertina.

Da qui in avanti, infatti, il disco tornerà a stringersi nell’abbraccio dell'intimità acustica di Haunted Nights, accarezzata tanto da una steel guitar quanto dal dialogo fra le voci maschile e femminile, o nella leggera foschia che adombra le visioni di The Cranes e il finale di Last Train Home, ballata che ricorre ancora al minimalismo delle note del pianoforte per ricongiungersi all’inizio del viaggio esistenziale di Chris Eckman dentro la “wilderness” slovena.


    



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