Il forte
richiamo all’ambiente naturale in copertina, quei boschi della Slovenia
che hanno accolto Chris Eckman come una seconda casa (da anni vive
e lavora a Ljubljana), suggerisce immediatamente il manto sonoro che avvolgerà
le canzoni di The Land We Knew The Best, nuovo capitolo
di un affascinante percorso solista per l’ex voce dei Walkabouts, che
si è fatto sempre più atmosferico, dilatato e accogliente nella placida
andatura che contraddistingue le sue ballate "folk-rock". Il
secondo elemento di quest’ultima definizione è forse quello che mancava
maggiormente nei lavori precedenti, per esempio in quello splendido noir
acustico che avvolgeva l’intero corpo ossuto di When
the Spirit Rests, mentre oggi qualche bagliore elettrico riaffiora
strada facendo.
Inciso con la sezione ritmica che lo accompagna spesso anche dal vivo,
Žiga Golob al contrabasso e BlaŽ Celarec alla batteria, e sfruttando i
contributi di Alastair McNeill (Róisín Murphy, Kreda) tra seconde chitarre
e tastiere, The Land We Knew The Best si presenta con una struttura
più arrangiata, eppure aulica al tempo stesso, non perdendo di vista quella
essenzialità musicale che ormai caratterizza il songwriting di Eckman.
La sua voce nel trittico iniziale, quasi da accogliere come unico paesaggio
melodico, rimane sempre quieta, profonda tanto nelle liriche quanto nella
musica che ne sottolinea le meditazioni: Genevieve
ondeggia docile per sei minuti su diafane note di piano e chitarra, tra
piccoli “rumori” di fondo e supportata dalla seconda voce femminile di
Ana Kravanja, mentre Town Lights Fade è letteralmente una passeggiata
tra i boschi della Slovenia con l’anima musicale che anela alla terra
americana lasciata tempo addietro, fino ad abbracciare l’antico canto
country folk in Running Hot.
Sebbene più luminoso del suo predecessore, The Land We Knew The Best
fino a qui appare come una variante di quanto indagato da Eckman con
raggiunta maturità artistica in anni recenti, eppure il corpo centrale
dell’album ("soltanto" otto brani, ma tutti mediamente ampi)
svela improvvisamente due episodi che riaccendono una vecchia fiaccola
elettrica che non può non riportare ai giorni dei Walkabouts: Buttercup
è dylaniana nell’incedere e asciutta nel tenere insieme i tremiti folk
rock della band e le parole stesse di Chris Eckman, ma la vera sorpresa
è l’errare vagamente psichedelico delle chitarre nella successiva Laments,
cuore pulsante del disco e sorta di vetta da cui si potrà poi serenamente
scendere a valle, magari per raggiungere quella baita in copertina.
Da qui in avanti, infatti, il disco tornerà a stringersi nell’abbraccio
dell'intimità acustica di Haunted Nights, accarezzata tanto da
una steel guitar quanto dal dialogo fra le voci maschile e femminile,
o nella leggera foschia che adombra le visioni di The Cranes e
il finale di Last Train Home, ballata
che ricorre ancora al minimalismo delle note del pianoforte per ricongiungersi
all’inizio del viaggio esistenziale di Chris Eckman dentro la “wilderness”
slovena.