Il titolo
sembra alludere alla proverbiale sensibilità ecologista dell’autore, la
chitarra in copertina suggerisce invece il tono più irrequieto e rock,
la canzoni infine si rivelano un compromesso fra l’anima acustica e i
temi della famiglia da una parte e quella elettrica e dal taglio politico
dall’altra. Una cosa è certa, la "ruggine non dorme mai" e Neil
Young per scacciarla si inventa l’ennesima scusa tornando in studio
di registrazione, ancora dalle parti di Malibu, dove l’amico Rick Rubin
apre le porte del suo Shangri-La.
La produzione (non pervenuta) questa volta è condivisa dallo stesso Young
con il veterano del folk rock di Los Angeles, Lou Adler, ma soprattutto
con una band, The Chrome Hearts, che è una curiosa variazione sul
tema dei Promise of the Real. Da lì arriva infatti la sezione ritmica
formata da Corey McCormick (basso) e Anthony Logerfo (batteria), cui si
aggrega per naturale parentela Micah Nelson (seconde chitarre) e il redivivo
Spooner Oldham (organo), pezzo di storia dei Muscle Shoals e in passato
già alla corte di Neil Young.
La via di uscita di questo ibrido fra i Crazy Horse (a cui Young aveva
dedicato le attenzioni dei tre album precendenti, omaggiati inoltre dall’ingresso
in formazione di Nils Lofgren) e gli Stray Gators di metà anni Settanta
è un album di dieci canzoni raminghe, che passano da flash improvvisi
di dolcezza e autenticità folkie "alla Comes a Time"
a confuse frustate rock’n’roll, seguendo l’umore del protagonista e quel
“buona la prima” che è da sempre l’espressione di un modo d’essere prima
ancora che una scelta stilistica. Sono disseminati però troppi inciampi
lungo il suo percorso perché Talkin to the Trees si vada
ad accodare a quegli album agitati e splendidamente imprecisi che hanno
disseminato il mito discografico di Neil Young, e semmai si finisce in
coda ai tanti esperimenti azzoppati delle recenti stagioni.
Le oasi acustiche restano i momenti più apprezzabili, a livello melodico
e anche di testo: il dolce caracollare country di una Family
Life che potrebbe uscire da American Stars and Bars,
la rielaborazione di Helpless (perché di questro si tratta in fondo)
di First Fire of Winter, la stessa
Talkin to the Trees e il “ringraziamento” finale di Thankful,
che rievoca la grazia westcoastiana del materiale scritto a suo tempo
per Harvest Moon. Discorso a parte viceversa merita Silver Eagle,
che si aggancia nuovamente al carattere country folk più immediato,
di fatto rileggendo la melodia del classico di Woody Guthrie, This
Land is Your Land. Trait d’union fra l’America della Grande Depressione
e quella del trumpismo autoritario, l’idea (non particolarmente originale)
piace così tanto a Neil Young da riproporla sostanzialemente sotto mentite
spoglie anche nella successiva Lets Roll Again,
versione country-rock da garage che si lancia in una tirata anti-Elon
Musk abbastanza sterile (il testo è, come a volte capita al nostro Neil,
a dir poco “elementare”, per essere cortesi) e mostra tutti i limiti della
parte elettrica di Talkin to the Trees.
I guai si aggravano con la farraginosa Dark Mirage, ricognizione
dura e cruda su famiglia figli e divorzio, e l’altra sparata politica
della raccolta, una prosaica Big Change che prova a mettere gli
Stati Uniti e gli americani di fronte alle loro reponsabilità, ma oltre
la denuncia non allarga lo sguardo. In questo disordine anche il povero
Spooner Oldham ne fa le spese, praticamente annullato (ed è un peccato)
per buona parte della scaletta, salvo ricomparire in una Movin Ahead
che pare muoversi sulle ali del punk blues che appartenne ad album
come Reactor, mentre la conduzione pianistica di una soffusa Book
of Love si mostra tra i pochi episodi davvero memorabili.
Rari momenti di illuminazione, nessuna canzone, ci scommettiamo, che entrerà
in un canone futuro dell'artista, generose quanto arruffate parentesi
rock, Talkin to the Trees è un ulteriore atto impulsivo di un Neil
Young confuso nell’istante.