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classic rock, garage blues di
Fabio Cerbone (01/04/2013)
Una
copertina così anonima potrebbe lasciarli sfuggire fra la miriade di rock'n'roll
band che ci provano anche soltanto un minuto, per poi sparire definitivamente
all'orizzonte. Forse accadrà davvero, eppure quelle facce da normali ragazzi newyorkesi,
con poche pretese di avere un'immagine studiata, nascondono un piccolo disco di
rock'n'roll americano che si accoda ad una generazione tanto poco sbandierata,
quanto sincera nel mantenere in vita un certo modo di vivere la materia. Che in
fondo è quella dei vari Lucero, Dawes, dei compagni di etichetta Lee Bains
III o dei Deer Tick, questi ultimi per nulla citati a caso, visto che dietro il
banco di regia di questo esordio, Ride on the Train, siede proprio
Adam Landry, già produttore di Divine
Providence e quindi protagonista attivo dei collaterali lavori di Diamond
Rugs e Middle Brother. Con questo elenco abbiamo già circoscritto troppo il raggio
d'azione degli Hollis Brown, nome rubato - chi lo sa - all'epopea folk
del Village di Bob Dylan (The Ballad of Hollis Brown), ma è fuor di dubbio
che il loro debutto suoni fresco e classico al tempo stesso, recuperando le migliori
intenzioni delle band citate in precedenza, magari concludendo il lavoro sporco
che altri non si sono sentiti di proseguire.
Ride on this Train, forma
e sostanza per il gruppo guidato da Mike Montali (principale voce e autore) e
Jon Bonilla (chitarre) all'indomani di un ep omonimo nel 2012, è una autentica
accozzaglia di garage blues e rock spiccio sbucato dalle cantine degli anni 60,
che incontra sensibilità da folksinger e ballate con un piglio pop naturale, tenendo
sempre gli strumenti vivi e scarni. Pochi accordi secchi, chitarre acustiche ed
elettriche che accennano riff essenziali e la ruota gira: la title track circoscrive
lo stile da moderniarato rock degli Hollis Brown, infilandoci il piano dell'ospite
Michael Hesslein in sotoffondo e un'aria un po' laid back e californiana; Nightfall
chiude con un simile contegno, ma un accenno più evidente alla Band; Down
on Your Luck frulla gli Stones di Honky Tonk Woman con squisiti coretti
sixties; When the Weather's Warm esalta la
voce stridula e "younghiana" di Montali, pescando a piene mani da After the Goldrush;
infine l'agrodolce Nothing & the Famous No One
è una ballata che mette insieme inaspettatamente il southern country con gli Smiths.
Quando arriva Doghouse blues cadiamo
invece in piena bolgia rock blues alla Free, giro in minore abusato mille volte
ma un cipiglio talmente trascinante che ci si passa sopra volentieri. Non è sicuramente
il colpo di genio dell'album, ma insieme all'altrettanto orgiastica Walk
on Water testimonia l'anima più riottosa e rock'n'roll del gruppo,
che invece di preoccuparsi di apparire attuale e "avanguardista", desidera conservare
espressività e verve strumentale. Il sound è quello crudo di una band che può
arrivare solo dai sobborghi newyorkesi (e quei nomi italo-americani, c'è anche
un Dillon Devito al basso, rievocano un immaginario da teppisti rock alla Del
Lords…qualcuno ricorda?), ma la sensibilità è di chi ha introiettato la recente
stagione del rock delle radici e prova a coniugare i linguaggi country e blues
con l'ingenuità di chi porta all'anagrafe una data di nascita troppo recente.
Tutto era scritto già allora, ma gli Hollis Brown se ne fregano e fanno
bene, perché da queste parti contano identità e passione: e allora quando partono
i tempi medi e le ballate Montali e soci non hanno rivali, tra il rollare gioioso
di Gipsy Black Cat e il soul sotto pelle di Faith
& Love. Trentasette minuti, dieci episodi e tutto quello che avevano
da dire ce l'hanno messo, dritti al bersaglio.