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sensitive folksingers di
Marco Restelli (18/11/2013)
Amos
Lee è uno dei tanti artisti americani che ho avuto il piacere di seguire sin
dagli esordi. Il suo primo album omonimo, del 2005, nasceva come esperienza folk
parallela a quella, certamente più jazzata, di Norah Jones, che ne condivise il
produttore Lee Alexander e suonò il piano in alcuni pezzi. Con il passare degli
anni, disco dopo disco (siamo arrivati al quinto, senza contare l'EP As the Crow
Flies, del 2012), il cantautore originario di Philadelphia è cresciuto in maniera
progressiva, cercando di volta in volta di portare con sé in studio colleghi sempre
più interessanti, ma mai scontati. E così dopo il turno dei Calexico, in Mountains
of Sorrow, River of Song è toccato a due navigate country girl come Alison
Krauss e Patty Griffin accompagnarlo qua e là con le loro eccezionali harmony
vocals.
Venendo alle nuove canzoni (ben 15, nella consigliata edizione
deluxe), l'idea di Lee è stata quella di calare sul tavolo un po' tutte le sue
carte, scoprendo senza calcoli l'intero repertorio, con il risultato di un disco
rigoglioso di stili e mai noioso. Al riguardo, basta pensare al trittico iniziale
che parte con il lentone acustico Johnson Blvd.
(malinconica apologia dell'intimo desiderio di "ritorno a casa") dominato da una
steel guitar da sogno (Jaron Ovlesky), per virare subito verso l'elettrica midtempo
Stranger, segnata invece da un trascinante
banjo (Andy Keenan). Segue Tricksters, Hucksters and Scamps che, pur suonando
più come un gioco, contribuisce a rendere eterogeneo il materiale proposto e viva
l'attenzione dell'ascoltatore. Con le tre ballate centrali Chill
in the Air (perla dell'album, con una Krauss da brividi), Dresser
Drewer (dobro degno di nota, ancora di Keenan) e Indonesia
(in una parola: intrigante) il climax delle emozioni tocca effettivamente il culmine,
ma per fortuna c'è ancora da godere con i pezzi successivi.
The
Man who Wants You (praticamente un funky soul, con quei suoi fiati
inattesi) e la più vintage Loretta, ad esempio,
non si possono non citare, proprio come Mountains of
Sorrow, che racconta di un risveglio da un sogno in mezzo alla notte,
pieno di tristezza, ma foriero di dolci ispirazioni musicali. La voce della succitata
Griffin, sullo sfondo ma ben riconoscibile, contribuisce a rendere l'episodio
coinvolgente come non mai, tanto da meritarsi a ragione il titolo dell'album.
Prima delle tre pur buone bonus track (a mio avviso la più bella è Charles
St.), il finale "ufficiale" ci regala un ultimo sussulto con la lullaby acustica
Burden che chiude alla grande il cerchio,
proprio allo stesso modo di com'era iniziato. Tirando le somme, credo che questo
possa essere annoverato come il disco più bello di Amos Lee, rappresentando al
meglio la sua piena maturità come cantante, musicista ed autore. L'unico rammarico
è che difficilmente sceglierà a breve il nostro paese per farci apprezzare anche
il fascino dei suoi emozionanti concerti, ma questo, ahi noi, è il destino comune
dei tanti fenomeni recensiti su queste nostre pagine.