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Americana, southern roots di
Fabio Cerbone (03/12/2013)
L'idea
di partenza è delle più semplici: un gruppo di musicisti stringono un'amicizia,
meglio un'unione di intenti artistici che nasce da radici musicali e geografiche
comuni, così come da palchi calpestati, si sviluppa un repertorio condiviso, si
decide infine di metterne insieme i singoli pezzi per dare vita ad un album vero
e proprio. Sulla carta l'esito è un successo, ma spesso sappiamo che la somma
delle parti non produce l'effetto desiderato: nulla da eccepire, invece, sulla
forma finale di Willie Sugarcapps, che non avrà forse l'impronta di un
imperdibile supergruppo (chi d'altronde oggi avrebbe il pedigree sufficiente per
fregiarsi di tale titolo?) della scena Amnericana, ma neppure l'approssimazione
di una band nata soltanto per occupare un buco nella carriera dei singoli.
È
un disco dai sapori rurali e pastosi questo omonimo esordio firmato Willie Sugarcapps,
acronimo che facilmente gioca con nomi e cognomi dei suoi membri: Will Kimbrough,
enfant prodige della scena roots rock di Nashville e dintorni (in passato
con Todd Snider e Tommy Womack, autore di almeno un paio di incantevoli lavori
solisti), il duo artistico (così come nella vita) Sugarcane Jane formato da Anthony
Crawford e Savana Lee, il più noto songwriter Grayson Capps, che da ultimo si
trascina appresso il suo collaboratore e chitarrista Corky Hugues. Il quartetto,
artisticamente ritrovatosi sulla assi di un piccolo club di Silverhill, Alabama,
passa dall'improvvisazione gioiosa del momento ad una scaletta più coerente. Acustico
in gran parte, fieramente sudista e tradizionale, il piatto musicale dei Willie
Sugarcapps mette insieme suggestioni old time, fraseggi blues, canto gospel e
verace country d'antan senza risultare per questo una semplice operazione di revival:
anche perché il materiale è interamente originale e semmai votato per ispirazione
a rievocare la semplicità delle melodie folk di un tempo.
Accade con la
voce di Savana Lee nella preghiera ecologista di Oh Colorando,
così come nella stessa Willie Sugarcapps,
sorta di manifesto o meglio ode a se stessi che la band si dedica in apertura:
è Grayson Capps e la sua vocalità aspra da autentico southern man a dettare il
passo giusto per una scura ballata country gospel guidata dai rintocchi di banjo
e armonica. Tutto il disco gioca su queste semplici dinamiche, su quel tratto
artigianale e quegli accenti regionali che hanno gioco facile nello stuzzicare
gli entusiasti adepti di un'Americana fedele alle sue fondamenta. Si mangia la
polvere della strada che da Nashville conduce a sud verso New Orleans, attraversando
i campi incolti del country blues e del gospel di Mr. Lee, Energy
e Gipsy Train, i crepuscoli acustici di una
dolce Magdalena (Capps è ancora l'autore con
le canzoni migliori) e quelli old time di Mud Botton,
sfiorando battiti quasi elettrici nell'incalzante Trouble
e nel finale jammato di Up to the Sky. Ricetta "ordinaria" se volete, ma
spesso è quella che funziona meglio, a patto di apparire autorevoli e del tutto
naturali nel maneggiarla.