inserito 01/04/2009

Elvis Perkins in Dearland
Elvis Perkins in Dearland
[
XL recordings / Self
2009]



Dalla malinconia dilagante e da quell'inesorabile rimuginare sul tema della morte che assediava l'esordio Ash Wednesday al soffio bandistico di un funerale in stile New Orleans, il passo sembra breve e inevitabile. Così il profluvio di trombe, tromboni, clarinetti e ritmi da marching band che sbucano di tanto in tanto in Elvis Perkins in Dearland (mandanmo in solluchero quelli collocati esattamente a metà di Send My Fond Regards to Lonelyville) continuano a ricordarci, in apparenza, che Elvis è un "ragazzo triste" con una vita tormentata, da cui non poteva che nascere un songwriting poetico e naif, infestato da fantasmi e piccole rivelazioni. E tuttavia la strada non è compromessa a tal punto: oggi c'è una band con la quale stringere un patto, un'atmosfera di complicità maggiore che è nata sui palchi e nelle tournè degli ultimi due anni, un suono più vispo che non rinnega il passato, ma bagnandosi nel grande fiume del gospel, del soul, di una folk music che mette insieme senza colpo ferire passato e presente, si fa più sgargiante, intervallando luci e ombre attraverso tonalità meno oppressive.

È un disco che nasce da uno spirito comunitario Elvis Perkins in Dearland, a cominciare dall'idea di intitolarlo esattamente come se fosse il frutto di un lavoro di squadra: e lo è a tutti gli effetti, come lo stesso Elvis Perkins ci tiene a precisare. "Più veloce e più giovane" di Ash Wednesday, non necessariamente più superfiale, forse soltanto più leggero e desideroso di mettersi in gioco. Ed è proprio qui che entrano in scena Brigham Brough (contrabbasso, sax), Wyndham Boylan-Garnett (organo, chitarre, harmonium e trombone) e Nick Kinsey (batteria, , banjo, clarinetto), comitiva assortita di musicisti che ha saputo riprodurre in studio quella coinvolgente "accozzaglia" percepita dal vivo: una piccola orchestrina che sembra rubare lo spirito di una vecchia jug band all'angolo di una via di New Orleans e darla in pasto al folk rock che fu del Village, scarabocchiandoci sopra qualche accento Americana. Il declamatorio tono con cui Elvis Perkins apre le danze in Shampoo è anche figlio di questa tradizione, perché se da una parte cita apertamente gli spiriti della folk music (Black is the Color of my True Love's Hair infilata da qualche parte) e nell'armonica infonde la brezza di un Bob Dylan, dall'altra parte si guadagna un suo stile, una sua personalità ormai definita dove la depressione lascia il passo ad un briciolo di magia.

Non scambiatelo per il solito uggioso songwriter a leccarsi le ferite: Elvis Perkins in Dearland, al traino dell'ottimo lavoro di Chris Shaw in regia, scarta di volta in volta ai lati della prevedibilità, volgendo ora alla irresistibile solarità pop di I Heard Your Voice in Dresden, ora alla disarmante tenerezza di 1 2 3 Goodbye, ora alla contagiosa melodia che pervade Hey (con la seconda voce femminile di Becky Stark dei Lavender Diamond) e soprattutto la bislacca Doomsday, ballate guizzanti fra trilli di pianoforte, fiati a profusione e battiti di grancassa. Il garbo di un tempo, e l'amore mai nascosto per Leonard Cohen, è riservato alla dolciastra Hours Last Stand, mentre la tensione dark blues di I'll Be Arriving è il solo momento un po' "agghiacciante" della scaletta, con quella manifesta idea di rovistare nella oscura eredità del Sud e del gospel, atteggiamento capace però di produre un piccolo capolavoro alla chiusura del sipario: si tratta del walzer How's Forever Been Baby ed è una delle canzoni più belle di questo 2009.
(Fabio Cerbone)

www.elvisperkinsindearland.com
www.myspace.com/elvisperkins



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