William
Fitzsimmons Gold in the Shadow
[Gronland
rec/ Audioglobe 2011]
Si è tagliato i capelli William Fitzsimmons dai tempi del suo acclamato
The Sparrow
and The Crow del 2008, ma non la barba d'ordinanza da indie-folker,
che anzi si è fatta ancora più lunga e ingovernabile. Look da asceta solitario,
voce soffusa "file under Bonnie Prince Billy and Iron & Wine", sound elettroacustico
con chitarre in primo piano: Fitzsimmons è un puro prodotto degli anni zero. Quasi
seguendo la linea recentemente dettata dai due illustri sopracitati Oldham e Beam,
anche la sua musica sembra, in questo Gold In The Shadow, cercare
una via più complessa e strutturata per offrire le proprie folk-songs. Niente
di trascendentale: qualche piano qui e là, tastiere discrete, persino drum-machines
assolutamente non fastidiose (Fade And Then Return,
Psychastenia), tanti piccoli accorgimenti
che fanno la differenza tra un disco fatto in casa e un'opera matura. Anche perché
l'azzeccato studio di arrangiamenti di questo album (che alla fine ricordano molto
il lavoro di Barzin) non è fine a sé stesso, ma è al servizio di dieci bellissimi
brani dalle tipiche tinte autunnali, che saranno pure un segno dei nostri tempi
(per non dire "una moda"), ma quando i risultati sono come questi, anche il fatto
che Fitzsimmons non sia comunque un caposcuola, ma solo un buon alunno, passa
in secondo piano.
La partenza dell'album è fulminante: The
Tide Pulls From the Moon attacca subito con un testo crudo e pieno
di oscuri presagi, Beautiful Girl è una soffice
ballata acustica che potreste anche dedicare alla vostra bella, The
Winter From Her Leaving un piccolo capolavoro di equilibrio tra scrittura
e accorgimenti musicali. Forse, nonostante la bontà del materiale, a Fitzsimmons
manca ancora il tocco personale distintivo che possa far parlare in altre recensioni
di "brani alla Fitzsimmons", e il difetto diventa evidente nella seconda parte
del cd, quando si gode per l'intreccio di acustiche e archi di Bird
Of Winter Prey prima di realizzare che forse l'accoppiata Nick Drake/Robert
Kirby potrebbe richiedere dall'aldilà qualche credits, o quando coinvolge Leigh
Nash (la ex voce dei Sixpence None the Richer, quelli del tormentone anni
90 Kiss Me per intenderci) in una quasi-pop-song come Let
You Break che si potrebbe anche far passare in radio che forse qualche
attenzione in più potrebbe attirare.
Il finale però è di nuovo a tinte
fosche: Wounded Head è abbastanza soffocante,
meglio invece Tied To Me, che parte melmosa,
ma guadagna nella parte centrale un baldanzoso andamento melodico che la rende
uno degli episodi più interessanti dell'album. Chiude What
Hold ancora una volta in puro Nick Drake-style (ma forse varrebbe la
pena citare Neal Halstead dei Mojave 3). Gold In The Sahadow è un disco che vive
ancora di troppi alti e bassi, ma bisogna sempre dare fiducia agli artisti che
sono ancora in piena fase di ricerca, sono gli unici che possono ancora trovare
qualcosa. (Nicola Gervasini)