Andre Williams
Hoods and Shades
[Bloodshot Records  2012]

www.bloodshotrecords.com


File Under: blues-folk, punk-soul

di Nicola Gervasini (16/03/2012)


Attenzione! Questo è un disco di serie B, fatto da un artista di serie B, anche se con un produttore di serie A (Don Was). E pure la copertina, con quella grafica da locandina di filmaccio anni 70, è da serie B. Ma siccome su queste pagine siamo da sempre rispettosi verso le serie minori, dove a volte lo spettacolo è più genuino che nella trita e ritrita serie A, allora torniamo volentieri a fare visita alle lande di Andre Williams (lo avevamo incontrato nel 2006 per l'album Aphrodisiac). Personaggio minore di quelli che piace molto riesumare di questi tempi, famoso per aver scritto già negli anni cinquanta una hit come Bacon Fat (la rifece anche Willy DeVille tra i tanti), Williams resta molto meno noto per la sua discografia, iniziata seriamente in tarda età.

I cinefili per un disco come Hoods And Shades userebbero il termine "scult", vale a dire un'opera fatta di talmente poco da risultare per questo memorabile. I critici invece per lui coniarono il termine blues-punk, quasi a voler giustificare quell'aria da fai da te dei quattro quarti che regna nei suoi dischi, esattamente come capita anche in questo caso. Il disco è presto spiegato: nove giri di folk-blues che John Lee Hooker masticava già 50 anni fa senza troppo pensarci, retti dalla sua chitarra acustica e una batteria fracassona (dono di Jim White), una chitarra elettrica che fraseggia e ricama in lontananza, come se fosse stata registrata in un'altra stanza (è quella di Dennis Coffey, un monumento della Motown), il basso distratto di Jim Diamond dai Dirtbombs e lui che perlopiù parla imitando a volte Lee Hooker, oppure impostando tutto su tinte più soul.

La prima volta, in A Good Day To Feel Bad, il giochino diverte, ma già nella lunga title-track si fa leggermente ripetitivo e fine a sé stesso. Proprio come i film di serie B, che magari iniziano promettendo una grande storia, ma poi non mantengono per mancanza di una valida sceneggiatura. E così se l'iniziale Dirt piace per quel senso di indolenza alla JJ Cale, i dolori vengono quando il nostro gioca a fare il James Brown rurale (I've Got Money On My Mind) senza averne però il ritmo adeguato. Passano così boogie di seconda mano (Jaw Dropper), delta-blues acustici da barrelhouse (Hu-matic Man) e sentiti omaggi a miti della black music (Swamp Dogg's Hot Spot). Soluzioni accattivanti e banalità macroscopiche convivono pressoché in ogni traccia, e nulla può un Don Was impegnato a rendere tutto credibilmente vintage. Alla fine quello che vince è il fascino del personaggio e della sua voce, e quell'aria di uno che ha troppe storie da raccontare per non valer la pena di ascoltarlo. Proprio come quei film polizieschi degli anni 70, le cui scene di azione erano troppo avvincenti per perdersele, magari solo per il fatto che il plot non stava in piedi o gli attori erano incapaci di avere più di tre espressioni diverse.

 

   


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