La prima cosa che risalta
all’occhio, pardon all’orecchio, è il riff canonico, per la verità anche
un po’ prodotto (John Lennon avrebbe detto “con un po’ di rossetto”),
di One Less Reason. E’ l’opener dell’ultima fatica di Tinsley
Ellis, Devil May Care, album pubblicato per Alligator; il riff
menzionato introduce in realtà un bello shuffle, di quelli ideali per
le aperture e in linea con le intenzioni e lo stile di Ellis, in definitiva
con la sua produzione. Spendendoci qualche parola in più, quella linea
include un sound robusto e qualche caloria in eccesso, un sapiente utilizzo
delle tastiere, qualche accordo di nona aumentata, molto utile per certe
trame soul/funky (come 28 Days, dalle venature un po’ hendrixiane),
nonché un assolo fatto di note tirate allo spasimo, tanto rassicurante
nella sua fluidità.
Un brano di grande presenza, appunto nello stile del nostro; il quale
stile che appare in tutta la sua brillantezza pure in occasione della
torrida, eccellente Right Down The Drain,
arrichchita dalla slide, in pezzi come Beat The Devil, molto r&b
o Juju, che malcela la sua essenza southern: ottima la prestazione
di Kevin McKendree al piano (doveroso menzionare gli altri, Steve Mackey
al basso e Lynn Williams alla batteria, musicisti di grande capacità).
Ci sentiamo un po’ a casa con l’artista di Atlanta, descritto da estimatori
e critica come uno dei più affidabili, attuali protagonisti di una certa
classica e generosa chitarra rock blues, attitudine maturata e confermata
in tanti anni di attività, dagli anni Settanta, filtrata attraverso una
costante produzione discografica culminata nel 2020 con Ice Cream In
Hell, sulla linea di quest’ultimo, pur se con i toni leggermente più
morbidi.
Quasi come se ogni disco fosse un’ulteriore maturazione, Tinsley Ellis
sa come dar vita a buone canzoni muovendosi in terreni consolidati ma
sempre affascinanti; è ancora il caso proprio di Devil
May Care e di pezzi come la densa ballata Just Like Rain,
Don’t Bury Our Love, profondamente blues, Step Up, gioiellino
soul con i fiati e l’Hammond in bella evidenza. Fino alla migliore, la
conclusiva Slow Train To Hell, delicata,
dolente ballata blues dallo struggente giro armonico, tale da dimostrare
la grande sensibilità di questo splendido musicista. Bel disco.