Sharon Jones & The Dap-Kings
Give the People What They Want
[Daptone  2013]

www.sharonjonesandthedapkings.com


File Under: little queen of retro soul

di Fabio Cerbone (13/01/2014)

Un titolo che possiede un inconfondibile sapore di auto ironia, ma nello stesso tempo sa di spietato desiderio, come se i Dap-Kings conoscessero ormai a memoria il loro raggio d'azione, quelli che possono e devono essere i loro obiettivi al fianco di Sharon Jones, la voce più pepata che il soul revival abbia conosciuto negli ultimi dieci anni. Give The People What They Want li ricolloca in posizione d'attacco, seppure non di avanguardia, per uno stile che resta in buona parte una personale rilettura dell'età dell'oro della black music, una vivace interpretazione di stili e suggestioni che intrecciano a stretto giro Motown e Stax, la macchina pop di Detroit e il deep soul di Otis Redding.

Il vero dato positivo è rivedere Sharon Jones al centro dell'azione: tornata all'attività concertistica lo scorso novembre, dopo diversi mesi di oblio, costretta al ritiro temporaneo e al conseguente rinvio dell'album in seguito ad una forma aggressiva di tumore al pancreas, la regina dei Dap Kings mostra in tutta la sua fierezza una piccola battaglia vinta e una forza d'animo che riflette per intero nelle sue interpretazioni vocali. Sulla copertina del "Village Voice" dello scorso novembre appare senza filtri e si confessa: gli effetti della chiemioterapia sono evidenti sul volto e lei ci scherza su, come quando ricorda di avere rifiutato una parrucca perché la faceva sembrare Dionne Warwick. D'altronde è una signora che dalla vita ha imparato la lezione più dura, sfiorando il successo e le grandi collaborazioni di prestigio superati i quarant'anni: Give The People What They Want, quinto disco di studio con gli undici elementi dei Dap-Kings è un po' la capitalizzazione di queste conquiste, forse il disco più smaliziato e adulto della produzione di casa, a cominciare dai cori sixties e da certa grandeur soul che invade Retreat! o Now I See (Tina Turner la nuova musa?).

Ciò detto, se il funk grasso e travolgente degli esordi (rivolgersi nel caso a Dap Dippin' e Naturally) si è senz'altro ridimensionato nel corso del tempo, la band suona oggi come una sofisticata macchina di musica black dai colori "settanteschi", raffinata eppure ardente di passione, senza eccessivi trucchi del mestiere. Ci sono fragranze pop nemmeno tanto nascoste tra le righe di Stranger To My Happiness e di una soave Making Up and Breaking Up, tanto quanto aromi classici in We Get Along e Get Up and Get Out e impulsi swamp sudisti in Long Time, Wrong Time, tutte costruite su dettagli preziosi ed essenziali per il genere: il call&response tra voce e fiati, le sfumature delle sottili ritmiche chitarristiche, il pingue piatto dei bassi, il tappeto dei cori, nell'insieme segnali che qualsiasi appassionato di "sweet soul music" può riconoscere all'istante.

È evidente che questo tolga l'effetto sopresa (People Don't Get What They Deserve però ha la stoffa di un singolare episodio, che potrebbe funzionare in una colonna sonora), e che ci siano richiami a volte fin troppo chiari alla stessa storia della band, ancora una volta riunita come una famiglia negli studi House of Soul di Riverside, California. È il prezzo da pagare per evocare i classici, ma non averne purtroppo l'età e il pedigree per incarnarne l'essenza.


    


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