Mavis Staples
One True Vine
[Anti/ Self  2013]

www.mavisstaples.com


File Under: soul queen

di Fabio Cerbone (03/07/2013)

In cerca di grazia e redenzione, coerente con quel lungo viaggio nella tradizione gospel da cui è partita, la voce di Mavis Staples in One True Vine è capace ancora di sorprendere e spiazzare, di mettersi in gioco, indossando i panni scuri, introspettivi ed emozionali di un disco scarno, di rara intensità. Se l'ondata di riconoscimenti e la riscoperta artistica che avevano fatto seguito alla prima collaborazione con Jeff Tweedy (per il fortunato You Are Not Alone) avevano rappresentato il grimaldello per conquistare un nuovo pubblico, oggi Mavis è pronta per il passo ulteriore, più coraggioso perchè mette alla prova non solo stile e forma, ma anche sentimenti e credenze personali.

One True Vine si confronta con le domande ultime della vita, con il senso di smarrimento e la ricerca di salvezza che questo folle mondo pone insistentemente. Logico che dall'albero musicale di casa Staples cadano ancora i frutti di un'educazione profondamente spirituale, lì dove anche i brani più controversi e densi di interrogativi (la Holy Ghost tratta dal repertorio dei Low, un'inedita Jesus Wept scritta appositamente da Tweedy) vengono affrontati da Mavis da una prospettiva diversa, quella di una donna che ha conosciuto il dolore, l'affronto, il rifiuto e li ha combattuti con il sostegno di una fede incrollabile. Questa volta tuttavia nel suo canto c'è meno impeto, meno irruenza (quella che caratterizzava in parte l'ottimo ritorno di We'll Never Turn Back con Ry Cooder), scegliendo spesso i toni della riflessione, finanche un'atmosfera dark e spartana che è la chiave di volta dell'intero One True Vine. Un album dunque dal mood cupo e dai ritmi cadenzati dove Jeff Tweedy ha lavorato costantemente di sottrazione: suona tutto o quasi (c'è anche il giovanissimo figlio Spencer alla batteria) e dirige la Staples in maniera disciplinata, contornandola delle voci giuste, di quelle piccole nuance che rendono i brani capolavori di equilibrio.

Non c'è bisogno di molto altro: Every Step sfoggia un pulsare quasi primordiale, mentre le voci crescono e accerchiano la protagonista; i Funkadelic rivisitati di Can You Get To That sono spolpati all'osso, con uno splendido intreccio di voci (irresistibile il baritono di rimpallo a Mavis) e un groove funky ribaltato in veste acustica; infine la Far Celestial Shore firmata da Nick Lowe è una piccola meraviglia di confessioni e speranze, in cui basta una chitarra minimalista a ricamare note soul e un manto di voci (tra le altre la bravissima Kelly Hogan) per aprire le porte del paradiso. Difficile davvero trovare un cedimento nelle trame di questo disco, così omogeneo e "spietato", anche quando assume il carattere più scontroso di I Like the Things About Me (brano del patriarca Pope Staples): rumoreggia tra bassi e chitarre fuzz di scuola Wilco (un po' come se la presenza di Nels Cline aleggiasse nell'aria...), non perdendo un centimetro della sua impronta funk sudista, ma assumendo al tempo stesso un'immagine asciutta, in linea con gli obiettivi della produzione.

È il sacrosanto riconoscimento del proprio ruolo nella storia della black music di stampo gospel (Sow Good Seeds il momento più rivelatore e legato al passato), ma senza ombra alcuna di un vuoto trionfalismo: ci sono la disadorna bellezza e il senso salvifico della conclusiva One True Vine a dimostrare esattamernte il contrario.


    


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