Karl Marlantes
Matterhorn

[Rizzoli]
pp.678

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Il Matterhorn (che poi sarebbe il monte Cervino) è il nome dato dai topografi militari americani a una cima strategica in una zona di confine tra il Vietnam e il Laos. Uno dei tanti punti sulle mappe da combattimento per cui, all’alba del 1969, generali e colonnelli avrebbero fatto qualsiasi cosa, a partire con lo spedire al massacro i propri soldati. In Vietnam “la guerra era diventata un affare troppo tecnico e complesso, e quella guerra in particolare era diventata troppo politica” visto che ricalcava, in terra straniera, le dinamiche dell’intera America. Una guerra di attrito, più che per il controllo del territorio: il body count dei nemici è artefatto; quello dei marines è impietoso. Le colline disseminate di cadaveri, la nebbia, i monsoni, la malaria: il paesaggio viene dipinto all’infinito, uno strato dopo l’altro, sempre uguale, e un sudario di morte ricopre tutto e tutti: alla fine “la giungla e la morte erano le sole cose pulite di quella guerra”. Karl Marlantes non perde un attimo, nemmeno una riga per esprimere una sua valutazione, un’opinione: Matterhorn è tutto azione perché è l’azione che conta in guerra, non il movente. Illustra, racconta e spiega, anche a costo di ripetersi (spesso), i meccanismi brutali, le contraddizioni, le diatribe, gli errori e gli atti di coraggio che portano i marines a lottare per ogni singolo centrimetro di fango e di merda. Lo stesso protagonista di Matterhorn, Mellas (Wayno è il nome che viene pronunciato di rado), soffre la sindrome del sopravvissuto. Ha visto i suoi migliori uomini, i suoi migliori amici, morire senza nemmeno poter chiedere aiuto. Ha subito ordini e contrordini (o ordini frammentari, che è più specifico e rende meglio l’idea). Deve fare attenzione alle tensioni razziali, sempre più evidenti e pericolose nonché ambigue, infine. Ed è costrettto a scoprire che “vivere, soccombendo alla follia, era l’estrema rinuncia a qualsiasi forma di orgoglio”. Karl Marlantes ha modo di descrivere in maniera inequivocabile i movimenti, gli schemi, le soluzioni e gli istinti, gli improvvisi e le deviazioni che costituiscono il caso e insieme il destino in guerra. Molte immagini sembrano provenire da visioni del Vietnam piuttosto che dal Vietnam stesso. La tigre assassina da Apocalypse Now, l’osso spezzato sulla roccia dal Cacciatore, le dinamiche tra graduati e soldati da Platoon, i colpi d’artiglieria sugli elefanti da Nell’esercito del faraone di Tobias Wolff e l’elenco potrebbe continuare un altro bel po’ perché Matterhorn arriva buon ultimo a riassumere anni e anni di infiniti tormenti. Come tutto il Vietnam, anche Matterhorn è il frutto malato di un’ossessione e assembla tutte le esperienze della guerra, certo partendo dalla realtà vissuta da Karl Marlantes, ma trasformandola in un monito. E’ compreso tra gli acronimi RHIP (il rango ha i suoi privilegi) e RIP, anche se nella giungla nessuno riposa in pace perché in Vietnam “non c’era modo di tappare i buchi causati dalla morte” che è il modo con cui Karl Marlantes in Matterhorn dice, compresa l’amarissima sequenza finale, che in guerra non c’è mai scampo. Nemmeno per chi si salva.

Anthony Neil Smith
Yellow Medicine

[Meridiano Zero]
pp.270

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Billy Lafitte, il protagonista di Yellow Medicine, è uno vicesceriffo con una percezione piuttosto vaga della linea di demarcazione della legalità. In quelle condizioni un posto vale l’altro anche se ben presto scopre che una smalltown del Midwest ha tutti i suoi segreti e i suoi dark places che ben si adattano alle regole che s’inventa per delimitare il suo territorio di caccia. “Ero in esilio dal mondo reale” dice all’inizio di Yellow Medicine per chiarire la sua condizione esistenziale e nel passaggio che l’ha portato dal Mississippi sconvolto dagli uragani al piatto e monotono Minnesota qualcosa si è perso, è rimasto lontano o nascosto per sempre nelle pieghe della tempesta: la moglie (da cui è separato), i figli, uno o due cadaveri segnano il suo passato e il nuovo paesaggio non lo aiuta certo a ritrovarli e a ritrovarsi. Anzi, è un elemento disorientate perché “certe volte il Minnesota poteva essere sconvolgente, nelle sue bellezze naturali, ma un istante dopo ti ritrovavi a chiederti se non fosse stata soltanto una crudele illusione ottica. Avevo sentito dire che bastava spingersi verso nord per trovare diecimila laghi e foreste e una natura selvaggia che ti mozza il respiro. Il guaio era che la parte meridionale dello stato sembrava dovessero ancora completarla”. Si tratta di luoghi gelosi della propria indipendenza, compresa quella di elaborarsi le loro metanfetamine, come già in un’altra era venivano raffinati whiskey da combattimento, e dove il melting pot americano si è fermato tra le ruvide origini scandinave dei pionieri e l’ostica (e mai del tutto domata) resistenza sioux. Questo è l’humus in cui il moderno e globale capitalismo fa irruzione a Yellow Medicine con una miscela proibitiva di ambizioni strategiche sul mercato della droga destinate a finanziare operazioni terroristiche su larga scala. Figurarsi come Billy Lafitte, uno abituato al massimo a studenti ubriachi o a mariti che hanno perso la via di casa, può affrontare una formazione con ramificazioni arabe e orientali e un’organizzazione militare e micidiale. I suoi modi operativi sono molto distanti dalla normale routine dell’ufficio dello sceriffo ed è lui stesso ad ammetterlo: “Lo so, cosa state pensando. Che sono un figlio di puttana. Un autentico stronzo. L’unica mia risposta è che non obbligo nessuno a fare qualcosa che non desidera. Sono pronto a rischiare l’osso del collo ventiquattr’ore al giorno, per proteggere i miei concittadini, quindi se mi capita di andare ben oltre il mio dovere per dare una mano a una ragazza in difficoltà, il modo in cui lei decide di mostrarmi la sua gratitudine non è affar mio”. Billy è fatto così, inutile negarlo, e non è l’eroe di Yellow Medicine, il cavaliere senza macchia e senza paura (anzi), ma come un folle deus ex machina risolve la storia a modo suo. Neil Smith non concede nulla: il ritmo è denso, duro e feroce e Yellow Medicine è azione e reazione allo stato puro, crudo e genuino come un grande film di serie b, che in fondo sarebbe il suo giusto destino.


 


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