Giorgio
Rimondi L'invasione
degli afronauti [Shake
edizioni, pp. 240]
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a cura di Marco Denti -
L'invasione
degli afronauti Una
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Quando George Clinton esce dall’astronave
a Oakland, California la sera del 22 gennaio 1977, la sfida
degli afronauti è giunta a un punto di non ritorno. Poco importa
se succede tutto sul palco del Coliseum, in un mirabolante
spettacolo di luci, grida ed elettricità. Come ricorderà Rickey
Vincent, l’arrivo del Dr. Funkenstein “ci restituiva
i nostri antichi sogni, ma con un significato diverso”.
Di cosa si tratta lo spiega Giorgio Rimondi con un
formidabile dispiegamento di mezzi, che parte dalla necessaria
definizione di “narrazione speculativa”, per poi indagare
a fondo il ruolo della fantascienza nell’esperienza e nella
cultura afroamericana. Scrive infatti Giorgio Rimondi: “Il
fantastico è infatti una provocazione, una sfida all’ossessione
tassonomica della cultura occidentale e un’incrinatura nell’ordine
che essa vorrebbe imporre alle cose. È insomma una figura
inquieta (e indubbiamente inquietante) della nostra identità,
in grado di rimescolare vicino e lontano, familiare ed estraneo,
inducendo in chi legge la perdita di ogni certezza”. Questo
ha un significato particolare nel momento in cui, intorno
alla metà del secolo scorso, la corsa allo spazio, non priva
di risvolti bellicosi, gravava sull’immaginario collettivo,
come annota bene lo stesso Rimondi: “D’altronde l’era spaziale
diventa importante proprio perché dà forma ai desideri e alle
paure della contemporaneità. Ma è pur vero che a partire dal
lancio dello Sputnik quei desideri e paure si trasformano
in una sfida, indubbiamente tecnologica ma anche, e forse
principalmente, concettuale”.
Se la tensione e la sensazione di pericolo verso il futuro
era indistinta per tutti, per gli afroamericani aveva una
valenza differente e così la evidenziava Duke Ellington: “Ecco
allora il mio parere sulla Race for Space. Non la vinceremo
mai finché noi americani, collettivamente e individualmente,
non riusciremo a trovare un new sound, un suono fatto di armonia,
fratellanza e rispetto, fatto di una diversa considerazione
per la dignità e la libertà degli uomini”. È lì che si trovano
i presupposti per cui L’invasione degli afronauti
diventa una tourbillon di immagini, mondi, costruzioni, esplorazioni
e tempi, disposti secondo un ordine felicemente caotico, ma
sempre assecondando la definizione di Greg Tate per cui “la
science fiction rappresenta il tentativo di codificare un
impulso che deriva dal desiderio umano di conoscere l’inconoscibile”.
Dall’epocale apparizione di Uhura in Star Trek a Sun
Ra (“Quando suono la space music sto affrontando il vuoto,
che è il vuoto dello spazio ma anche quello della condizione
nera”), da Jimi Hendrix a Basquiat, da Ornette Coleman ai
fumenti, da Samuel Delany a Mumbo Jumbo di Ishmael
Reed, da John Coltrane ai Public Enemy, L’invasione degli
afronauti in modi differenti e contrastanti ma perfettamente
inseriti nel suo ricchissimo impianto, rivela che, come scrive
Nnedi Okorafor, “la science fiction è una delle forme più
grandi ed efficaci di scrittura politica”. Non ci sono dubbi,
e Giorgio Rimondi si spende con generosità nell’illustrare
le radici, gli intenti e le motivazioni delle astronavi narrative
di inizio millennio, che poi riportano comunque a quello che
diceva Richard Buckminster Fuller: “Se vuoi cambiare le cose
non combattere la realtà, ma costruisci un nuovo modello che
la renda obsoleta”.
In definitiva, è forse il tema principale che attraversa L’invasione
degli afronauti ed è reso ancora più esplicito da Octavia
Butler: “Che strano: nel crescente desiderio di creare alieni
noi esprimiamo il bisogno che abbiamo di loro, e contemporaneamente
il profondo timore di essere soli in un universo che non si
cura di noi più di quanto si curi delle pietre o di qualsiasi
altro frammento di se stesso. E ovviamente non siamo capaci
di andare d’accordo con questi alieni che ci sono così vicini,
questi alieni che ovviamente siamo noi”.
Un libro eclettico, prezioso, utilissimo, e molto funky.