:: I nostri speciali

 


Gli speciali di RootsHighway:

RootsHighway 2023 Revisited
I dischi dell'anno, redazione e lettori

Back to School Days
Speciale "Pub-Rock" 1972-1980

Through the Years 2000-2019
I vent'anni di RootsHighway, un anniversario speciale

RootsHighway Desert Island
I 100 dischi da Isola Deserta dei lettori di RootsHighway

Rock Noir
Incubi metropolitani e luci al neon

100 dischi da Strade Blu
Parte I, 1970- 1979
Parte II, 1980-1989
Parte III, 1990-1999


Documentari, visioni, approfondimenti

The Rolling Stones
Play it loud, again: Hackney Diamonds

Baz Luhrmann
Elvis

Lee Daniels
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday

Darden Smith
Western skies: orizzoonti americani

Welcome to the Beat Hotel: l'avventura parigina dei Beat

Willy Vlautin: fughe e motel nella notte di Portland

Nomadland: i discendenti di Tom Joad

Respect: il biopic di Aretha Franklin al cinema

Aretha Franklin: Amazing Grace

Greetings from Austin: a sicilian-texan rockabilly Odyssey


Reportage concerti:

Gov't Mule
Bob Dylan
The Who
Ryan Adams
The Rolling Stones
The Delines
Trasimeno Blues 2020
North Mississippi Allstars
Chari Blues Festival
The Dream Syndicate
Tedeschi Trucks Band
Graham Nash
The Long Ryders
Steve Forbert
Seasick Steve
Delta Moon

Interviste

Black Snake Moan
Erik Hoel
Tinsley Ellis
Andrea Parodi
Joachim Cooder
Eric Bibb
Jim White
Andy White
Courtney Marie Andrews
Carter Sampson
Dan Stuart
Carrie Rodriguez
Daniele Tenca
Danni Nicholls
The Orphan Brigade
Hollis Brown
Maurizio "Gnola" Glielmo
Steve Wynn
Mary Cutrufello
Brant Croucher
Basko Believes
Lynne Hanson
The Vacant Lots
Massimiliano Larocca
Matt Harlan
Fabrizio Canale
Wyatt Easterling
Paolo Bonfanti
Speciale Dirtmusic e Glitterbeat
Bottle Rockets
Luca Milani
Daniele Tenca
Cesare Carugi
Evasio Muraro
Amanda Pearcy
Lowlands
Francesco Piu
Stiv Cantarelli
Cary Hudson
Mojo Filter
Daniele Tenca
Light of Day/ Rob Dye
Jonny Kaplan
Don Dilego
Luther Dickinson (NMAS)
Ryan Purcell
Ashleigh Flynn
Massy Ferguson
Tito & Tarantula
Elliott Murphy
Kenny White
Evasio Muraro
Maurizio Gnola Glielmo
Massimo Priviero
Jesse Malin
Michele Gazich
The Maldives
Drive-By Truckers
Falling Martins
The Duke & The King
Chris Cacavas
Evasio Muraro
Mandolin' Brothers
James Dunn
Will Hoge

Archivio inteviste

RootsHighway Revisited
I dischi dell'anno di RH (2001-2022):


RootsHighway best of 2022
RootsHighway best of 2021
RootsHighway best of 2020
RootsHighway best of 2019
RootsHighway best of 2018
RootsHighway best of 2017
RootsHighway best of 2016
RootsHighway best of 2015
RootsHighway best of 2014
RootsHighway best of 2013
RootsHighway best of 2012
RootsHighway best of 2011
RootsHighway best of 2010
RootsHighway best of 2009
RootsHighway best of 2008
RootsHighway best of 2007
RootsHighway best of 2006
RootsHighway best of 2005
RootsHighway best of 2004
RootsHighway best of 2003
RootsHighway best of 2002
RootsHighway best of 2001

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Home page

Postcards   interviste, speciali , racconti live
Condividi
 
 

Sons of the Laurel Canyon
Percorsi musicali in parallelo: Jonathan Wilson e Israel Nash

- a cura di Donata Ricci -


Quanto sono intriganti le affinità artistiche? E quanto è gratificante andare alla scoperta di quel quid misterioso, perlopiù inspiegabile secondo i parametri della razionalità, che lega individui, artisti, creatività di diversa provenienza? La risposta è prevedibile: molto. E allora ecco che due recenti uscite discografiche possono fornire il pretesto per un confronto tra due musicisti accomunati da significative analogie. Immaginiamoli allo start di uno slalom parallelo, assolutamente non competitivo, ciò non di meno utile a garantire agli interessati parità di trattamento.

Loro si chiamano Israel Nash e Jonathan Wilson e, se avete presente le loro figure, capirete perché la prima somiglianza risieda nell’aspetto esteriore: entrambi sono detentori di lunghe chiome e adottano un abbigliamento che sembra uscito da un muffoso magazzino di Frisco, rimasto chiuso dai giorni del Flower Power. Poi, che entrambi abbiano un nuovo disco in circolazione da pochi mesi l’ho già detto: due lavori di studio, costituiti interamente da inediti. Considerevole poi è il fattore età, visto che i due musicisti sono sostanzialmente coetanei e i sette anni che li distanziano non sono sufficienti a mettere in discussione l’appartenenza alla medesima generazione. Sono poi entrambi nati e residenti sul suolo americano e, pur provenendo da stati diversi (Missouri per Nash, North Carolina per Wilson) tutti e due, in età molto giovane, decidono di trasferirsi altrove: Nash nell’isolamento del ranch texano di Dripping Springs; Wilson nientemeno che a Laurel Canyon, luogo fortemente evocativo di una delle più leggendarie comunità artistiche che siano esistite e incuneato nelle Hollywood Hills che cingono Los Angeles.

E’ esattamente il genius loci di Laurel, con la sua visione libertaria e la musica ineffabile che qui molti artisti amatissimi seppero creare a partire dalla metà degli anni ’60, è proprio questo spirito, dicevo, ad avvicinare Jonathan Wilson e Israel Nash. Perché anche se il secondo preferisce, almeno per il momento, il romitaggio di un sobborgo di Austin, la sua musica porta il marchio inconfondibile di Laurel Canyon. Basti ascoltare per esempio Through the Door, brano contenuto in un album pubblicato una decina di anni fa e intitolato Israel Nash’s Rain Plans, giudicato da molti un prodotto di retrovia nella sua discografia ma che, per quel che conta, è il mio preferito. Through the Door è già un assaggio del carattere compositivo di questo quarantaduenne musicista: si apre con pochi accordi armonicamente ben assestati, con l’onnipresente pedal steel a stendere un velo onirico su tutto ciò che trova sul proprio percorso, poi nel bel mezzo dell’esecuzione ecco che il brano s’invola in una fuga cosmica.

Quello delle digressioni visionarie è il vero marchio di fabbrica di questa corrente musicale, che muove dall’heartland rock per approdare ad un’autonomia espressiva obbediente soltanto al fluire delle emozioni del compositore, interessato più a suggerire atmosfere che a vergare spartiti rigidi. Meglio di me può spiegarlo sicuramente Jonathan Wilson. Prendiamo la traccia New Home, dove nella parte finale, solitamente puramente strumentale, si aggrega un corposo coro dal sapore agreste: anche in questo caso lo scopo resta quello di creare un’atmosfera, più che di comunicare un messaggio facilmente intelligibile. New Home proviene da Dixie Blur, album del 2020 - dunque penultimo nella discografia wilsoniana – che per chi scrive rappresenta il suo apice creativo, dove pesa la presenza di Pat Sansone, inestimabile polistrumentista dei Wilco che qui suona e co-produce il disco insieme al titolare. Quanto alla scrittura dei brani invece Wilson fa, come sempre, tutto da sé. Un’ulteriore analogia con Israel Nash.

Ebbi modo di ascoltare Wilson dal vivo nel 2012 a Lucca: apriva addirittura per Tom Petty & The Heartbreakers e purtroppo il pubblico di Piazza Napoleone gli prestò poca attenzione poiché l’attesa, direi spasmodica, era tutta per l’attrazione principale in cartellone. Tuttavia Wilson a Lucca tenne il suo onesto act, stralunato e fascinoso, incurante di tutto ciò che non riguardasse la spontaneità del suo esprimersi. D’altra parte, che lui sia di quelli che fanno esattamente ciò che gli pare – senza l’ossessione di piacere o di massimizzare il profitto commerciale, di cui peraltro non sembra avere ‘sto gran bisogno, visto che da sette anni è diventato stretto collaboratore di Roger Waters – ecco, di questo suo sentirsi libero da un certo tipo di condizionamenti abbiamo conferma nel nuovo disco, quell’ Eat the Worm che già dal titolo (“Mangia il verme”) sembra far di tutto per mettere alla prova il potenziale acquirente. Ma è soprattutto la dozzina di tracce che contiene a far storcere il naso ad alcuni, persino tra i suoi abituali estimatori. Effettivamente, pur trattandosi di un lavoro per più motivi interessante, l’ascolto comporta un certo impegno: potremmo definirlo un contenitore di suoni di disparata provenienza (del resto lo sapevamo che Jonathan è per natura onnivoro) e, insistendo sulla metafora sciistica potremmo dire che l’autore fa slalom in scioltezza tra i generi.

Nel loro dipanarsi i brani mutano ritmo e armonia continuamente e zappianamente, si ammutoliscono all’improvviso per ripartire con arrangiamenti completamente differenti e pertanto spiazzanti. Allo stesso modo le liriche: libere come se avessero assimilato i poeti beat, indefinite, ribelli alla tirannia del senso compiuto; ciò nonostante capaci di risultati poetici che arrivano a segno nel loro proporsi come istantanei flussi di coscienza. Spesso si tratta di semplici elencazioni di luoghi, date, nomi, come accade in Marzipan, opening track di Eat the Worm, il cui testo sembra un piccolo Murder most foul del recente Dylan. Vi si menziona Hank Williams e la musica folk che – afferma – “mi aveva in un certo senso cambiato”; e poi Roy Acuff e Chet Atkins, il rock’n’roll e il jazz (“quest’ultimo – dice – era lì da sempre” e questa mi sembra un’ottima osservazione). Insomma un patchwork stuzzicante reso ancor più straniante da incursioni strumentali aliene. Wilson suona tutti gli strumenti (eccetto basso e pianoforte) ai quali appioppa nomi buffi come “uova di pasqua”, “vox humana”, “questo, quello, l’altro” e altre bischerate da burlone qual è. Perché - fa sapere - voleva fare le cose da solo, in modo da concentrarsi su ciò che desiderava esprimere. Eppure in mezzo a tanto solipsismo spunta un’ispirazione di quelle che non ti aspetti: Jim Pembroke, scomparso un paio di anni fa, cantante della band finlandese Wigwam. Jonathan ci s’imbatte per caso e resta folgorato dalla sua musica “stramba” al punto da volerne seguire le orme. Per il resto, autarchia creativa totale.

Ascolta la puntata di Motel Life (ADMR Rock Web Radio) dedicata a Jonathan Wilson e Israel Nash.
Episodio 3, 6 dicembre 2023. A cura di Donata Ricci

Per reperire qualcosa di similmente libero nella discografia di Israel Nash occorre riandare a Topaz, album del 2021 che molti considerano il suo capolavoro e che viene inaugurato da Dividing Lines, un pezzo che già dal titolo sembra prendere le distanze dalla forma tradizionale di canzone, per sostituirla con dilatati trip lisergici. Per farlo si serve di un vero e proprio wall of sound dalle tinte gospel, con un prorompente coro femminile e una generosa dose di ottoni. Già, perché c’è stato un tempo in cui il nostro songwriter si chiamava per la precisione Israel Nash Gripka (in seguito perderà per strada l’ultima parte del nome) e sembrava intenzionato a seguire il solco di Ryan Adams e ancor più di Neil Young, scrivendo canzoni da classic songwriting come la stupenda Drown, estratta dal secondo ineccepibile album Barn Doors & Concrete Floors, anno 2011. Drown è una ballata dark che racconta di colline aride, lavori malpagati, tentazioni di rivendicazioni poco sindacali a suon di Colt 45 e un fiume (che un fiume c’è sempre) dove scendere per depositare il proprio fardello, non si sa se per riposarsi o per annegare la vita stessa. Potrebbe essere un racconto di James Anderson condensato in una canzone, talmente asciutta ed essenziale da rispecchiare le radici montanare di Israel Nash. Che nasce infatti in un piccolo paese delle Ozark Mountains, in Missouri appunto.

Questo spiega perché, in un moto di riconoscenza verso le proprie origini, abbia intitolato il suo nuovo disco Ozarker, abitante dei monti Ozark. Ed è un disco complessivamente buono, anche se alcuni aspetti possono perplimere: una produzione ipertrofica ad opera di Kevin Ratterman (che pure aveva ottenuto buoni risultati con Ray LaMontagne e My Morning Jacket) e insomma, quel suono troppo pieno che odora pericolosamente di classic rock. Però non ha perso l’abitudine di dilatare i brani in divagazioni sognanti. Nella traccia di chiusura, Nash fa sapere di aver compiuto un cerchio tornando alla terra natale, dal Texas alle colline di Ozark: un percorso dal Sud al Midwest del continente americano che sembrerebbe più immaginario che reale. Quello che è certo è che lui si sente in pace in quella che chiama “la terra delle ombre”, vale a dire Shadowland.

Perché sì, prima o poi, nel corso della vita le persone (e dunque anche gli artisti) avvertono pungente il richiamo delle proprie origini e l’impulso di tornare, almeno con la fantasia, ai luoghi che li hanno cresciuti. Jonathan Wilson, in un’intervista pubblicata sul Buscadero nel marzo 2020, confessa: “Sono cresciuto in una merdosa cittadina industriale del North Carolina, nota solo per il commercio di mobili: non c’era nient’altro, nessun museo e niente di realmente bello. E’ un luogo dove s’impara presto ad usare l’immaginazione. Ho pensato di andarmene e sebbene l’opzione più logica fosse quella di spostarmi non troppo lontano, in un posto come Nashville, alla fine ho deciso di andare in California, entrare in una band e provare a cavarmela. Tutto considerato, penso sia stata la scelta giusta”. Dichiarazione rilasciata in occasione dell’uscita di Dixie Blur, disco che tuttavia contiene una canzone (ineffabile, profondamente autobiografica e zeppa di ricordi familiari) che esprime, al contrario, un’intensa nostalgia di casa. S’intitola ’69 Corvette perché quella era l’automobile che guidava suo padre e che s’intravede nel relativo video rintracciabile facilmente in rete: una testimonianza iconografica che ha tutta l’aria di un romanzo di formazione compresso in quattro minuti, dove vengono assemblati frammenti di Super 8 in bianco e nero e Polaroid sbiadite, sereni pranzi domenicali, i primi tiri a canestro e un acerbo concertino alla high school. Il testo non fa niente per mascherare lo struggimento: “A volte penso ancora alla Carolina, mi manca la mia famiglia, mi manca quel sentimento, mi manca casa… dove io e mamma bevevamo tequila scadente e ci facevamo delle gran risate. Papà aveva il gomito del tennista perché si esercitava al violino; ora lo vedo rallentare e non è facile accettarlo quando si tratta del tuo vecchio… Perciò ricordati di dire a mamma e papà che li ami, ogni volta che puoi”. Un sentimento delicato che Jonathan mise in valigia quando si trasferì sulla West Coast.

Per raggiungere casa sua ora bisogna lasciare la Highway 1, la strada panoramica che disegna la costa del Pacifico e addentrarsi nei canyon che si aprono alle spalle di Los Angeles. Si raggiunge così il villaggio di Topanga, dove Jonathan ha costruito la sua casa-studio e dove lavora di notte per addormentarsi all’alba. Qui scrive le proprie canzoni e produce dischi altrui (Father John Misty, Grace Cummings, Roy Harper...) e sperimenta molto perché - dice – “se il songwriting è una specie di dipendenza, sperimentare in studio per me è come una droga. Non ha alcun senso ripetersi.” E che faccia sul serio lo dimostra il nuovo lavoro licenziato dalla BMG, quell’ Eat the Worm cui accennavo prima, dove il suono del Laurel Canyon (ricordiamo che, prima di stabilirsi nel Topanga Canyon, Wilson ha vissuto a Laurel) che aveva ispirato un po’ tutta la sua produzione, ecco, quel suono qui viene sporcato, contaminato, da una sperimentazione spinta, che rende un po’ faticosa l’assimilazione dei brani, come del resto è difficile ingoiare il verme rappresentato in copertina e che, secondo tradizione giace sul fondo delle bottiglie di mescal, il distillato messicano per cui Jonathan va matto.

Esemplificativo è il brano intitolato Charlie Parker, che supera i sei minuti e che riguarda effettivamente Bird, l’immenso sassofonista dalla vita brevissima e devastata da abusi di droga, alcol, tasche al verde e ricoveri psichiatrici, come del resto altre esistenze del Be-Bop. Questa traccia, tra le migliori del disco, dimostra l’elevato grado di indipendenza compositiva raggiunto da Wilson. Ci infila di tutto: dall’arrangiamento orchestrale a inserti “marziani” di sax contralto, in omaggio evidentemente alla musica di Parker. Un’operazione che ricorda quella compiuta dagli Steely Dan in Parker’s band, nel cui finale compare proprio il sax di Parker. In un’intervista a Rolling Stone del settembre scorso Jonathan Wilson dichiara, a proposito del suo nuovo lavoro: “Non m’interessa se un brano dura tredici minuti e se per qualcuno sono troppi, non m’interessa cosa pensano, non mi offenderebbe nemmeno che una canzone possa durare novanta minuti”. E alla domanda se consideri Eat the Worm un atto creativo di pura liberazione, risponde: “Esatto. Per concepirlo dovevo far morire il modo in cui percepivo la mia carriera. Quando è scoppiata la pandemia e di conseguenza il tour di Dixie blur è stato annullato, mi sono chiesto: “Davvero ho bisogno di salire sul palco? E perché dovrei scrivere un altro album? Perché ho qualcosa da dire. E ciò non ha nulla a che vedere con le aspettative dei fan, degli amici o del music business”. Può darsi che qualcuno si senta infastidito da affermazioni di cotanta indipendenza, che a me appaiono invece apprezzabili per chiarezza e assenza di calcolo.

Ad ogni buon conto, se desideriamo assaporare il sound di Laurel Canyon, quella ambrosia che apporta tutt’oggi effetti benefici alle anime orfane del buon vibe californiano, il brano perfetto lo troviamo nel secondo album di Wilson, uscito nel 2011, il cui titolo Gentle Spirit spiega già molto dello spirito, appunto, della musica che contiene. In Desert Raven c’è questo corvo che sorvola il deserto e che è più saggio dell’autore stesso perché – sono parole sue - gli uccelli possiedono pace e immobilità. E capacità poetica. E senso delle cose. Musicalmente in Desert Raven non manca niente per farne un compendio di pura american music: armonia sognante, vocalità che più west coast non si può e, a cucire la trama, una chitarra allmaniana versante Dickey Betts e forse anche Duane. Ma qui sarebbe materia da esperti. Ad ogni modo un suono superbo, che ricorda tra l’altro alcune cose della Chris Robinson Brotherhood, l’esperienza generata da una costola dei Black Crowes. Ma richiama anche - e aggiungo “ovviamente” altrimenti cadrebbe il postulato del parallelo - molte composizioni di Israel Nash. In Who in Time – insistendo su Rain Plans - c’è tanto, ma tanto Neil Young, al punto che il ritornello sembra una Ohio ai fiori di tiglio. Comunque una gran bella canzone.

Nel frattempo siamo giunti alla manche finale dello slalom parallelo tra i due “cowboy psichedelici” - come sono stati definiti - di nuova generazione, ma forse più esattamente della generazione di mezzo, visto che hanno entrambi superato i quaranta e dispongono di discografie già consistenti. E allora cediamo gli ultimi metri a un paio di canzoni, una a testa, particolarmente rappresentative di questi due songwriter eterozigoti. Spazio dapprima a Israel Nash che dall’album Topaz regala la ballata perfetta, accogliendo il sentire del compare laddove canta a ripetizione “My heart is a canyon”. Perché alla fine ci si rende conto, tirate le somme, che è tutta una questione di canyon, orografici ma anche interiori e il titolo della ballata è, neanche a dirlo, Canyonheart. Mentre a Jonathan Wilson assegniamo, da Dixie Blur, la traccia Pirate che, nonostante il titolo vagamente minaccioso, in realtà possiede una melodia di indicibile dolcezza. Non è di questo che abbiamo un gran bisogno?