L'epica
del Motel Una
conversazione con Willy Vlautin
-
a cura di Donata Ricci -
Nelle
mie intenzioni doveva essere una veloce intervista pomeridiana
quella concordata con Willy Vlautin - bandleader
di The
Delines e affermato scrittore di narrativa - al Circolo
ADMR di Chiari (BS) in occasione della prima data del
minitour italiano. Non volevo rubargli troppo tempo, impegnato
com’era tra il soundcheck ed il concerto la sera stessa.
Ne è uscita invece una ricca conversazione di quaranta
minuti in crescendo, con un artista di rara gentilezza
e desideroso di esprimersi come in un flusso di coscienza.
Se leggerete le righe che seguono, se siete curiosi di
conoscere la sua visione sul significato di scrivere e
comporre e su cosa sia in definitiva una canzone, muovete
da questa prospettiva e lasciatevi catturare dalla profondità
del suo pensiero. Entrate nelle confessioni intime che
ha spontaneamente offerto, con una tale confidenza che
conferma la fiducia che nutre nel genere umano. Scoprirete
– ma forse semplicemente ne avrete conferma - una persona
sensibile, autentica, in una parola bellissima. Non ho
tagliato niente, non si poteva tagliare niente. Ringrazio
Maurizio Mazzotti per avere gentilmente messo a disposizione
gli studi di ADMR
Rock Web Radio, Giorgio Zoppi per le fotografie, ma
soprattutto Marcello Matranga per tutto: senza di lui
questa conversazione non esisterebbe.
Hi Willy. Per prima cosa lascia
che ti dica che da alcuni anni conduco un programma per
ADMR Rock Web Radio - proprio qui dove ci troviamo ora
- che ho intitolato Motel
Life ispirandomi al tuo romanzo d’esordio che mi aveva
immediatamente affascinato. Questo per dirti quanto ammiri
i tuoi libri, oltre naturalmente alla musica di The Delines.
Oh grazie, sono orgoglioso di avere ispirato la tua trasmissione.
Ho l’impressione che per te le
canzoni e i romanzi siano complementari, due forme espressive
che, nell’incontrarsi, acquisiscono ulteriore forza e
bellezza. Penso, per esempio, a Lynette che è la
protagonista sia del romanzo La notte arriva sempre,
sia dello strumentale Lynette’s lament dall’album The
Sea Drift. Potresti spiegarmi come si svolge il tuo
processo di creazione e da dove inizia: da un romanzo,
da una canzone?
La maggior parte dei miei romanzi prende forma dalle
canzoni. Potrei dire quasi tutti. La canzone è una storia
e quasi sempre accade che un racconto finisca ed una canzone
inizi. A volte i miei brani musicali vengono concepiti
già pensando che possano diventare dei romanzi. D’altronde,
le mie canzoni ed i miei romanzi vivono entrambi nel mio
appartamento, occupano le stesse stanze, quindi è come
se si inseguissero inspirandosi a vicenda. Però con una
differenza sostanziale: scrivere un libro comporta un
lavoro da svolgersi con continuità, giorno dopo giorno,
ora dopo ora, mentre comporre una canzone è qualcosa di
ancor più magico. Non riesco a comprendere da dove sgorghi
la melodia, non so dire perché una canzone piaccia a qualcuno
mentre un’altra piaccia a qualcun’altro. Non so spiegarmelo.
Ma so che scrivere richiede così tanto tempo che a volte
sento il bisogno di fermarmi. Ma il bello è che ho sempre
accanto a me la mia chitarra. Tutto questo crea una forte
connessione fra il romanzo e la canzone. Spendo tanto
tempo per creare un romanzo, girando per anni intorno
alle stesse idee, agli stessi pensieri, per poi convogliarli
nelle mie canzoni. A volte sono processi lunghissimi che
possono durare anni prima che un risultato finale possa
concretizzarsi.
Infatti i testi delle tue canzoni
sono sostanzialmente short stories, brevi racconti di
vite ai margini della società nordamericana, cui tu partecipi
con profonda empatia. Da dove nasce la tua straordinaria
sensibilità per gli outsiders e in generale per chi porta
avanti la propria esistenza con estrema fatica?
Credo che tutto nasca dalla sensibilità che risiede in
me fin da bambino. Osservare la realtà attraverso la sensibilità
di un bambino ti porta ad avere una percezione maggiore
delle situazioni che affliggono le persone. Quando ero
un bambino, vivevo con mia madre e mio fratello. Mia madre
combatteva con un lavoro malpagato, in situazioni dove
ha subito molestie sessuali. Aveva problemi mentali ed
era terrorizzata dal timore di perdere me e mio fratello.
Tutto ciò io l’ho assorbito da subito, anche se lei si
prese cura di noi con tenacia, senza mai arrendersi. Invece
ho visto attorno a lei persone che gettavano la spugna
e questo mi ha sempre colpito. Mia madre non aveva molti
amici, perciò si confidava con noi ragazzi e posso dire
che ha combattuto una dura battaglia. John Steinbeck con
i suoi libri ha dato voce a chi non ne aveva. Ecco, vale
anche per mia madre: lei non aveva voce. Diceva sempre
“siamo tre mosse sbagliate che vivono in un’auto, siamo
una piccola famiglia e dobbiamo avere cura di noi stessi,
muovendoci come se fossimo in una partita di scacchi,
altrimenti ci può accadere del male”. Io ho preso queste
parole seriamente e lei è sempre presente nel mio cuore.
E forse è proprio per questo che le storie di cuori che
vanno in frantumi sono sempre presenti nella mia scrittura,
nella mia vita, nel mio sangue. Sarà questione di genetica,
sarà un’infanzia complicata… (la voce di Willy si spezza,
è visibilmente commosso).
Willy, hai accennato a John Steinbeck.
Saprai certamente che parte della critica accosta il tuo
modo di scrivere a quello dello scrittore di Salinas.
Che effetto ti fa?
Guarda, la gente fa sempre paragoni, pensa quando li
fanno tra band…! Per me è un onore essere paragonato a
Steinbeck, ma lui è il preside della scuola mentre io
sono soltanto il genitore di un alunno. Ma è ok: siamo
entrambi nella stessa scuola.
Posso dirti che le tue storie creano
dipendenza affettiva? E’ un complimento naturalmente.
Sei veramente gentile, per me è un onore sentire giudizi
del genere.
Intendo dire che ai tuoi personaggi
i lettori si affezionano, seguono le loro vicende con
trasporto e partecipano ai loro dolori ma anche alle loro
rinascite, come succede per esempio ad Al Ward, il protagonista
del tuo nuovo romanzo Il
cavallo (WV annuisce). Tra l’altro Al esprime un concetto
suggestivo: è possibile scomparire dentro una canzone.
Dunque ti chiedo: cos’è veramente una canzone per te?
Può rappresentare, fra le altre cose, un rifugio dal mondo
esterno??
Vedi, quando ero ragazzo un amico di mio fratello, più
grande di me di quattro anni, un giorno mi diede un consiglio
sensato. Mi disse: “Quando la vita diventa troppo dura,
prova a scomparire dentro una canzone e questa ti proteggerà
dal mondo là fuori”. Pensa, alla sua età lui si era
bloccato ad ascoltare gente come Led Zeppelin, Yes… e
io cercavo di comprendere come “entrare” dentro queste
canzoni. Poi ho capito che dovevo scriverle io le canzoni
nelle quali avrei voluto “perdermi”, salvando così la
mia vita. Il romanzo è il modo più profondo per raggiungere
questo scopo. Quello che cerco di fare attraverso i romanzi
è di immaginarmi davanti ad una scatola contenente tutta
la mia malinconia, le mie paure, le mie passioni: la tiro
fuori e mi metto a studiarla. E racconto tutta la storia
attorno a un’idea o ad una serie di idee. La mia speranza
è sempre di salvare qualcuno e, per quanto riguarda me
stesso, se l’ansia che provo se ne va è perché sto vivendo
immerso in quella storia dove tutte queste cose stanno
accadendo. E’ un modo folle per un uomo quello di vivere
la sua vita dentro le storie che racconta, ma è quello
che ho deciso di fare per salvare me stesso, anche se
penso che nello stesso tempo questo comportamento mi abbia
danneggiato.
Dunque cosa ti gratifica maggiormente
tra realizzare un disco o scrivere un libro?
Io sono un sostenitore dei romanzi. Penso che rappresentino
una straordinaria forma d’arte, perché ti offre la possibilità
di capire altre persone ed entrare dentro il loro modo
di vivere in maniera molto privata. Ma la musica per me
è il paradiso ed essere parte di una band è qualcosa che,
alla mia età, mi permette di alzarmi ogni giorno pieno
di gratitudine e felicità pensando “Sono in una band!”
Succede lo stesso anche dopo tutti questi anni. Sono veramente
fortunato potendo vivere accanto ad altri musicisti. Dunque
posso dire di amare sia comporre musica sia scrivere un
romanzo, ma quest’ultima cosa mi sta proprio nel cuore
ed è anche ciò che considero come il mio lavoro. Quando
sei in una band l’impegno maggiore è quello di arrivare
in tempo ad un concerto, ma scrivere un racconto è qualcosa
che conferisce un senso alla tua vita. E poi adoro pensare
di dover lavorare con metodicità, giorno dopo giorno,
sulle parole. È un lavoro lungo, a volte lunghissimo,
ma lo trovo meraviglioso. Ho sempre sostenuto che, quando
scrivi un romanzo, devi saltare l’ostacolo una sola volta
e nessuno sa che invece ci hai messo un centinaio di volte:
è come se avessi sbattuto contro l’ostacolo novantanove
volte, ma poi cambi un po’ di cose, cambi un capitolo
qua, un capitolo là e all’improvviso riesci a superare
l’ostacolo. Quando fallisci nella scrittura stai fallendo
da solo, in privato; invece quando fallisci come musicista
lo fai davanti a molte (almeno spero) persone.
Occupiamoci ora della tua musica.
Nel nuovo disco Mr.
Luck & Ms. Doom The Delines si presentano nella formazione
ormai stabile da tempo ed Amy Boone si conferma fondamentale
con le sue prestazioni vocali misurate ma coinvolte al
tempo stesso, che si armonizzano perfettamente sia con
la tua cifra compositiva sia con i raffinati arrangiamenti
della band. Qual è secondo te il vantaggio di avvalersi
con continuità degli stessi compagni di avventura? Dico
bene se affermo che questa stabilità ti permette di dedicarti
alla composizione con serenità e concentrazione e che
la tua creatività ne guadagna?
Sì, è esattamente così. Io amo la stabilità. I Richmond
Fontaine per esempio sono durati ventitrè anni. Non amo
stare in gruppi che cambiano rapidamente, mi piace l’unione
che si crea in una band. Poi adoro sentire Amy cantare.
Lei è una persona genuina, amabile, divertente. E poi
la sua voce! Lo stesso posso dire di Cory, Freddy e Sean,
gli altri componenti di The Delines. Sento molto la responsabilità
di tenere unita la band, prendendomi cura di scrivere
le canzoni, buone canzoni e mi preoccupa la possibilità
di non riuscirci più in futuro. Loro sono così gentili
a suonare con me e sono persone generose a interpretare
le mie canzoni.
Ho notato che in questo tour europeo
siete soliti terminare i concerti con una nuova canzone
“a cappella”. Potrebbe essere un’indicazione per il prossimo
album?
Sì, si tratta di Dilaudid Diane, la eseguiremo
anche stasera qui a Chiari. Sai, le canzoni di Mr.
Luck & Ms. Doom sono venute seguendo un determinato
corso temporale, Dilaudid Diane invece è arrivata
e l’ho composta in cinque minuti.
Fantastico...
Io non so come una canzone ti arrivi, nè perché. Non
lo so. A volte spendi mesi e mesi per trovare una linea
melodica di un brano e magari finisci per non trovarla
e quindi metti tutto nel cassetto, mentre altre volte
l’insieme si assembla in brevissimo tempo. Come dicevo
prima, quando scrivi un romanzo hai la possibilità di
lasciarlo sedimentare, per rivederlo nel tempo. Una canzone
invece può seguire un processo diverso.
Ti andrebbe di dirmi qualcosa su
quella che definirei “l’epica del motel”? Nei tuoi testi
questo concetto ricorre spesso: lo stesso romanzo Motel
Life, ma poi citi un Motel 6 nel brano JP & Me e
così via. Cosa rappresenta il motel nella tua narrazione?
Un luogo di transito dove si sfiorano varie umanità? Un’allegoria
dell’esistenza? Un rifugio dal mondo esterno anche in
questo caso? Mi viene in mente cosa scriveva Carver:
“C’è gente che d’estate va in vacanza; mia madre trasloca. Abitavamo
in case d’affitto, camper, persino in stanze di motel.
Ci trasferivamo continuamente e a ogni trasloco il fardello
si faceva più leggero”.
Vedi, io sono cresciuto in una piccola città del Nevada,
Reno. Era una città piena di casinò, una piccola Las Vegas
ancor prima di Las Vegas, anche se non ha avuto la stessa
crescita. A Reno c’erano decine e decine di motel che
mi colpivano per le loro insegne al neon tutte colorate.
Erano ovunque! E io, fin dall’età di dieci anni, immaginavo
di scappare di casa per vivere in un motel! Da ragazzo
non avevo idea di come arrivasse la corrente elettrica
ad un appartamento, o di come fosse possibile avere l’acqua
e tutto il resto che serviva per abitarci. Ma pensavo
che se sei in un motel tu non devi fare nulla, è già tutto
lì a tua disposizione! Dovevo soltanto avere abbastanza
denaro per poter viverci, in un motel. Ma poi col tempo
le cose sono cambiate: sono arrivate le corporations che
hanno comprato i casinò, costruendovi hotel all’interno
e dando così l’opportunità ai giocatori d’azzardo di vivere
direttamente all’interno di queste strutture. Ho visto
gente della nostra età che viveva nei motel diventare
homeless, perdere il lavoro e ritrovarsi in totale povertà,
con conseguenze come divorzi, alcolismo… Insomma i motel
si sono riempiti di disadattati. Ma il motel era anche
quel luogo che permetteva alle persone di scomparire,
di scappare da una realtà che era diventata durissima
e spesso inaccettabile. Ho visto amici crescere e vivere
dentro ai motel e credo che in tutto ciò vi sia una sorta
di romanticismo. Non so se hai mai visto il documentario
Shepard & Dark. Ecco, Sam Shepard è stato uno dei
migliori esempi di tutto ciò. Potrei dirti che, sebbene
io abbia una band, avrei voluto vivere come lui.
Finisce un tour, si torna a casa.
Come passi il tuo tempo quando rientri? Non dev’essere
facile per chi conduce una vita come la vostra tornare
alle abitudini della gente comune?
Al ritorno a casa i ruoli cambiano. Ho una moglie e due
cavalli, cerco di prendermi cura di loro. Scrivo, questo
è il mio lavoro. E poi occorre sforzarsi di non farsi
cogliere dalla depressione. Devi riallineare la quotidianità
con la tua partner, dopo che lei ha dovuto prendersi cura
di se stessa per mesi e cercare di darle un aiuto nel
suo lavoro. Vedi, quando sei in tour puoi anche trovare
il tempo per scrivere guardandoti attorno e non soltanto
da una stanza d’albergo; mentre sei in tour puoi vedere
posti meravigliosi che rendono magiche certe giornate,
vivendo esperienze splendide e gustando cibi che non hai
la possibilità di provare quando sei a casa. Ma poi pensi
che i tuoi amici e tua moglie sono al lavoro e tu sei
in Italia, come in questo momento per esempio. Tu non
hai idea di quanti americani vorrebbero visitare l’Italia.
Per molti di loro il vostro Paese è una sorta di paradiso.
E tu non puoi raccontare cose così belle quando torni,
perché la gente soffrirebbe ascoltando i tuoi racconti
sulle esperienze che fai. Ma per noi tutto questo è l’aspetto
meraviglioso del nostro lavoro, della nostra vita.
Ho notato che sei solito conferire
dignità di persona alla toponomastica, ti piace assegnare
importanza primattoriale a semplici pertinenze geografiche:
un fiume dell’Oregon come Willamette, un minuscolo
agglomerato di nome Santiam, o semplicemente una strada
di negozi di liquori come Colfax Avenue. Li trasformi
in titoli di canzoni e a volte lasci che s’impossessino
delle canzoni stesse. È un’attitudine incantevole, che
definirei “geografia poetica”. Sei d’accordo?
Certo e ti spiego. Sono un fan della musica. Il mio desiderio
è quello di scomparire in mondi diversi. Pensa a una band
come i Pogues… quando metto sul piatto il loro disco Pogue
Mahone vorrei essere in Irlanda… oppure in Inghilterra.
Altre volte ascolto artisti italiani, compositori di colonne
sonore di film degli anni Sessanta e Settanta e sentendoli
immagino di essere in Italia, pur non avendoci mai vissuto
stabilmente. Nella mia mente mi trovo lì. Come accennavo
prima, quando ho iniziato a scrivere canzoni ero un ragazzo
e vivevo a Reno ed ero innamorato di quella città, profondamente
innamorato. Però la “mia” Italia, la “mia” Irlanda, il
“mio” New Jersey mutuato da Bruce Springsteen, saranno
il “mio” Nevada, il “mio” Oregon, il “mio” fiume Willamette.
Qualcuno in Italia potrebbe ascoltare una canzone ed esclamare:
“Oh adesso sono in Oregon!” Si mette su un disco e si
scompare come dentro un film. Il mio obiettivo come musicista
è sempre stato quello di fare in modo che, mentre mi ascolti,
tu possa scomparire dentro un altro mondo, nel mondo di
una canzone. Ecco perché vi inserisco spesso elementi
geografici.
Willy, permettimi un’ultima curiosità:
quali sono i musicisti fondamentali secondo te?
Uhm domanda difficile. Certamente Tom Waits. Lui è un
“romantico”, il suo linguaggio musicale è brillante, impavido.
E’ il classico songwriter. Poi direi Randy Newman. Per
me lui è il fratello di Tom Waits, sono entrambi songwriters
meravigliosi sia per la musica che per i testi. E poi
Willie Nelson. Lui è stato un vero e proprio eroe per
me che sono nato e cresciuto in un luogo decisamente tradizionale
e piuttosto conservatore. E’ stato un hippy e mia madre
lo adorava. Tutti amano Willie. Aggiungo anche Bjork per
il suo modo di elaborare le canzoni. E poi la sua voce…
Bene Willy, siamo in chiusura.
Ti ringrazio della lunga chiacchierata che è stata molto
interessante e scorrevole nonostante tu ed io parliamo
lingue diverse. Mi viene in mente ciò che disse Leonard
Cohen e cioè che la potenza della musica è tale da permettere
di capirsi anche oltre le parole.
Oh sì, la forza delle canzoni. Penso che la forza delle
belle canzoni si manifesti anche quando, per esempio,
stai guidando: le ascolti e cominci a piangere e piangi
così forte che devi accostare. La loro forza può toglierti
il respiro. Il potere della melodia, ciò che riesce a
cambiare il tuo stato d’animo, è eccitante. E poi aggiungici
le liriche. Sai, penso che l’energia della musica sia
più semplice da afferrare rispetto ad un romanzo. E’ molto
più difficile coinvolgere le persone nella lettura, soprattutto
i giovani, ma con le canzoni è un’altra cosa. Ho sempre
creduto nel potere delle canzoni. Per tutta la mia vita
avrei voluto viaggiare insieme ai dischi della mia collezione
e adesso puoi portare con te tutta la musica che vuoi
attraverso lo smartphone. Ecco, l’unico aspetto che apprezzo
della tecnologia moderna è il fatto che posso viaggiare
portando con me praticamente l’intero catalogo della musica
umana, a cui posso accedere in qualsiasi momento. L’unica
regola che personalmente mi sono dato come musicista è
questa: se ami davvero qualcosa, allora accettala anche
se sei stanco o addirittura esausto: buttatici dentro.
Se ami la musica gipsy, oppure la musica irlandese, o
la musica strumentale, buttatici e sii grato di questo.
Vado appresso a qualsiasi cosa mi sembri interessante,
come ho fatto in questi ultimi dieci anni.
Riflessioni magnifiche per una
conversazione decisamente arricchente. Grazie ancora Willy.
Grazie a te per le tue domande stimolanti e per l’amore
che nutri verso i miei romanzi e la mia musica. Mi rende
orgoglioso sapere che hai intitolato il tuo podcast come
il mio romanzo.