Claudia Buonadonna
Patti Smith

[Arcana]
pp. 383

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E' uno strano equilibrio quello su cui si regge la poetica di Patti Smith. Da una parte c'è una proiezione profetica, capace di vedere attraverso e per il mondo che la fa sentire "un'artista americana senza colpe" capace di sentire il proprio e il nostro tempo come nessun altro: "Stiamo vivendo tempi difficili, ma appunto per questo abbiamo il diritto e il dovere di prendere le strade e le piazze e far sapere che non ce ne staremo qui a guardarli rovinare il nostro mondo!". L'invocazione, riportata nell'introduzione a "tutti i testi commentati" con garbo e senso della misura da Claudia Buonadonna, celebra la Patti Smith più battagliera, quella che da People Have The Power a Radio Baghdad offre infinite occasioni per comprendere cosa vuol dire essere un'artista tra due secoli feroci. E' il suo lato di pubblico dominio, quello che emerge di più, non l'unico: infatti, affrontando le canzoni una per una, con il gusto per le storie e senza la mania dell'esegesi a tutti i costi, Claudia Buonadonna mette in evidenza e racconta anche gli aspetti più lirici legati agli amatissimi simbolisti francesi, così come alle visioni di Jim Morrison e di tutti gli altri suoi "eroi" o quei temi legati alla sua autobiografia e alla sua famiglia (basta pensare a Kimberly). L'opera omnia rappresenta un'artista che, come conclude Claudia Buonadonna, ha indicato "una libertà da perseguire con fervore estremo". Se serve (eccome, se serve) ricordarlo, questa è l'occasione giusta.

Brian Cross
Hip Hop a Los Angeles

[Shake]
pp. 254

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Premesso che sul tema esiste un libro esaustivo come quello di Simon Reynolds, Hip Hop Rock 1985-2008 (ISBN), la ristampa di Hiphop a Los Angeles, un titolo che risale al 1993, merita senza dubbio qualcosa in più di una menzione d'onore. Intanto quello di Brian Cross è stato uno dei primi tentativi di comprendere il linguaggio, non soltanto ritmico e musicale, usato dai "vietcong della nostra società" come venivano chiamati in un'infelice battuta le gang nere di Los Angeles, in particolare i Blood e i Crip. Un lavoro svolto rimanendo sulla frontiera dell'hiphop, la strada, la "città di quarzo" di Mike Davis, che Brian Cross ha cercato di definire partendo dalle radici afroamericane, dal blues e dal jazz. Una delle voci più autorevoli citate nelle prime pagine di Hiphop a Los Angeles è quella di Max Roach che offre un punto di vista singolare e molto interessante: "La cosa dell'hiphop che ha spaventato maggiormente è stato sentire che la gente si godeva il ritmo in sé e per sé. L'hiphop vive nel mondo, non nel mondo della musica, ecco perché è così rivoluzionario". Il metodo scelto da Brian Cross è a sua volta legato in modo naturale all'hiphop perché, per capire come da voce dei ghetti vessati e combattuti sia diventato una forma culturale conosciuta worlwide, ha allineato una serie di interviste che raccontano la vera storia in prima persona. Come quella di Eazy E che sognava "una grossa etichetta, grande come la Motown, tutta mia". Morirà di Aids nel 1995. O come quella di Dr Dre che finiva la sua intervista dicendo: "Puoi dire quel cazzo che vuoi, non c'è modo di rovinarmi la reputazione, sono già un bad boy". Un'ottima riscoperta..

   

Adrian Johns
Pirateria

[Bollati Boringhieri]
pp. 717


Per qualcuno la pirateria sarà la catastrofe del ventunesimo secolo e chi si scarica qualche canzone (anche qualche migliaio di canzoni) è collocabile nelle liste dei nemici pubblici, magari non proprio al primo posto, ma in buona compagnia tra terroristi e serial killer. Per qualcun altro la pirateria è poco più di un hobby con cui trastullarsi, poco importa poi se in una frazione di secondo vi possono sfilare la vostra identità senza battere ciglio. Leggendo Pirateria si capisce che la verità non sta nemmeno nel mezzo perché la monumentale "storia della proprietà intellettuale da Gutember a Google" di Adrian Johns (circa settecento pagine belle dense) non ospita banali luoghi comuni e dimostra che la pirateria nasce e cresce parallela alla proprietà intellettuale. E non è una scoperta di ieri, per dirla proprio con Adrian Johns: "La pirateria non è propria della rivoluzione digitale, una rivoluzione tra l'altro indissociabile dal suo retaggio storico. Né è un semplice accessorio nello sviluppo della dottrina giuridica. Ma non è neanche un reato senza tempo, definibile in modo universale e secondo criteri assoluti. E' qualcosa di ben più ricco e sfuggente". Quello che mostra Adrian Johns, e che dovrebbe far riflettere, è che se la pirateria ha lo status che ha lo si deve solo al mercato, e non certo a qualche bizzarra idea pseudorivoluzionaria. E' naturale che la tesi, qui dimostrata con ampi margini di ragionevolezza, dia fastidio, ma andare contro la storia è, se non altro, imbarazzante. Fondamentale.

Frédéric Martel
Mainstream

[Feltrinelli]
pp. 440

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Tutti noi scriviamo, leggiamo e più in generale usiamo e condividiamo la parola mainstream, anche se con il tempo il suo significato è andato deformandosi. Seguendo la sua evoluzione Frédéric Martel ha scritto un imponente storia dell'entertainment, seguendone con scrupolo il profilo di volta in volta politico, economico e sociale. Uno sforzo notevole visto che ha saputo coniugare un'incredibile ricchezza di informazioni con un tono narrativo, destinato a far comprendere con chiarezza le fondamenta del mainstream. Partiamo dalla definizione iniziale: mainstream è una "parola di origine americana che può voler dire grande pubblico, dominante, popolare. L'espressione cultura mainstream può avere una connotazione positiva, nel senso di cultura per tutti, ma anche negativa, nel senso di cultura egemonica". Il fatto che il mainstream abbia radici americane non dovrebbe sorprenderci: da Hollywood a Nashville sappiamo bene quanto contano e quantono pesano le logiche mainstream (basta pensare alle playlist radiofoniche) nel determinare il gusto e il successo, se non altro perché ci occupiamo di tutto quanto è americano, ma nella direzione opposta e contraria. Guarda caso, Luke Lewis, presidente della Universal a Nashville, proprio nelle pagine di Mainstream non riesce a spiegarsi perché il "loro" country & western" non riesca a imporsi in tutto il mondo. Senza scomodare il cosiddetto "lo scontro di civiltà" da cui il pur eccellente Mainstream comincia, potremmo benissimo rispondergli noi.


 


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