Charles Baxter
Festa d'amore
[Mattioli 1885]
pp. 358

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Un Richard Ford un po' acido, un Raymond Carver meno crudo, un John Cheever senza whiskey, un Richard Yates più sereno. La forma colloquiale per raccontare la sua Festa d'amore si traduce in un modo molto lineare e pulito di impostare il linguaggio, mentre il racconto segue traiettorie imprevedibili perché come dice Charles Baxter "mi piace fare smarrire il lettore. La forma narrativa standard che va da un punto A a un punto B non mi interessa". Anche se i personaggi sono molto attinenti alla realtà della storia, Festa d'amore si sviluppa circondato da un'aura insonne come se fosse un sogno di una notte di mezza estate. Charles Baxter porta i personaggi dentro spazi e sprazzi onirici, interpretati da pittoresche figure femminili. Hanno sempre il compito di imprimere alla storia una svolta o di indicare una breccia come dice lo stesso Charles Baxter: "Spesso sono i pazzi a vedere la felicità e io sono sempre più interessato ai matti, a quelli che, tolti gli ormeggi, riescono ad avere visioni luminose sul futuro". Forse la felicità non coincide proprio con una Festa d'amore, ma almeno è un'alternativa alla "triviale infelicità", che Charles Baxter cerca di evitare così: "Essere uno scrittore ti fa vivere bene. Non c'è routine nel pensare all'idea di un libro. Sarebbe come se una donna descrivesse la propria partecipazione a un parto. Il giorno ideale per me è questo: svegliarsi, fare colazione, scrivere, pranzare, passeggiare, schiacciare un pisolino, bere del vino, fare l'amore, dormire". Bel programma, sempre valido.

Jack London
Il popolo dell'abisso

[Mondadori]
pp. 299

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Di tutti i viaggi di Jack London, quello nel quartiere londinese dell'East End all'inizio del ventesimo secolo, riportato in Il popolo dell'abisso è il più duro, il più crudo, il più estremo. Una scelta univoca, sul campo e di campo, dove Jack London rimane colpito da quello che incontra, tanto da ammettere: "Ne ho letto e visto un bel po', di miseria; ma questa supera ogni immaginazione". L'East End è un buco nero lasciato dalle rivoluzioni industriali: le descrizioni sono minuziose, precise, puntuali e l'empatia di Jack London è totale, e non è soltanto una questione di povertà o di insuperabili difficoltà quotidiane. L'atmosfera plumbea che grava sull'East End di allora, come su tutte le periferie e i ghetti di oggi, è una variazione antropologica che Jack London ha anticipato osservando e vivendo in prima persona con Il popolo dell'abisso. In realtà la scelta nell'East End è piuttosto circoscritta e il meticoloso racconto di Jack London è a metà strada tra il diario, il reportage e il manifesto politico, eppure mantiene sempre una viscerale sincerità, che è poi la sua nota caratteristica e per certi versi definitiva che trova in questa nuova, curatissima edizione, seguita passo per passo da Mario Maffi, la sua giusta collocazione. Nel caso non bastassero le parole, è compresa nel (modico) prezzo una bella selezione di fotografie, che sono inequivocabili nel rendere la realtà dell'East End, così come deve averlo visto Jack London. Un libro necessario.

   

Joe Boyd
Le biciclette bianche

[Odoya]
pp. 299

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Protagonista discreto, ma infallibile nel trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto, Joe Boyd ha vissuto in prima persona quasi, se non tutti gli eventi più significativi degli anni sessanta. Dal Village alla storica edizione del Newport Folk Festival del 1965, dal primo singolo dei Pink Floyd all'UFO, dai Fairport Convention a Nick Drake è stato promoter, manager, produttore (soprattutto), discografico. Sempre con un gusto colto e raffinato, sempre con il senso della misura e dello scrupolo, così come è il racconto che scorre in Le biciclette bianche, ora rivisto e ristampato con la doverosa cura. Meritava perché Joe Boyd è un testimone molto affidabile: non gli sfugge un particolare e non nasconde nulla, dall'uso all'abuso delle droghe che hanno caratterizzato quegli anni, alle politiche (spesso e volentieri scriteriate) del marketing e della pubblicità. Ne viene fuori una storia che ha un suo senso proprio, persino con una sua eleganza nello stile e non priva di qualche idea scomoda, nella sua lucidità perché, scrive Joe Boyd nel cuore di Le biciclette bianche, "sotto la superficie, gli anni sessanta progressisti nascondevano molti aspetti di sgradevolezza: il sessismo, il conservatorismo, il razzismo e il conflitto fra diverse fazioni. In realtà, nulla di stupefacente. L'idea che le droghe, il sesso e la musica potessero trasformare il mondo fu sempre un sogno molto ingenuo". La ricostruzione non fa una piega, ma la passione è rimasta intatta e la si trova tutta in Le biciclette bianche. Indispensabile.

Matthew Ruddick
Funny Valentine

[Arcana]
pp. 671

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Pur sapendo di non essere il primo a restare affascinato dalla vita maudit di Chet Baker, Matthew Ruddick si è buttato nell'impresa di ricostruirla pezzo per pezzo. I termini di confronto restano la biografia di James Gavin (Chet Baker. La lunga notte di un mito, Baldini & Castoldi, sempre molto valida) così come la sua autobiografia (Come se avessi le ali, minimum fax), ma Funny Valentine va più in là nel raccontare una vita con la musica, sempre d'istinto, sempre a orecchio perché come ha vissuto la musica, Chet Baker ha vissuto la vita. Intanto Matther Ruddick si spende con una certa generosità (ci sono quasi settecento pagine, da leggere) senza nascondere nulla, a partire dalla sua ammirazione: "Credo ci sia qualcosa di addirittura eroico nel modo in cui Chet Baker rimase fedele ai suoi principi musicali, senza lasciarsi influenzare dalle disavventure o dai problemi della vita privata". E' proprio l'equilibrio della sua narrazione che rende Funny Valentine un gran bel libro, al di là della biografia di Chet Baker. Senza scoprire niente di nuovo o di eclatante, Matthew Ruddick in realtà riscrive una sorta di storia del jazz e dei jazzisti perché, per un motivo o per l'altro, non manca nessuno dei grandi nomi del ventesimo secolo, da Miles Davis in poi, anche se poi La vita di Chet Baker, come recita il sottotitolo, è (ovviamente) la linfa vitale di Funny Valentine, in cui è facile immergersi come in un romanzo (spesso dai contorni noir, come si sa). Monumentale.

   

Roberto Menabò
Vite affogate nel blues

[autoprodotto]
pp. 194

per info:
www.robertomenabo.it



Il blues è l'ultima storia decente andata a male, i diavoli alle calcagna, la gola secca bruciante di whiskey, polvere lungo la strada, un giorno di nebbia e una notte senza riparo, grandine a sassate e un binario morto, a precipizio sull'inferno. Prima ancora dei personaggi, sono allora le storie a costruire le pagine di un libro in cui lo stesso autore si fa piccolo piccolo e lascia parlare i fatti, piuttosto che le persone, e quegli stessi accadimenti che intorno a Vite affogate nel blues, definiscono la produzione in proprio a firma Roberto Menabò, oltre che musicista, anche cultore della materia di cui qui preferisce tralasciare i tecnicismi saggistici e abbandonarsi a emotività, colore e umanità, forse la più grande forza nel linguaggio del blues tra ardui "casini" e tempi difficili, tutt'intorno e a venire. Sicché non trapelano altro che incredibili vicende da quest'agile volumetto, fatto in casa come un distillato clandestino, spacciato nei meandri della rete come ottimo additivo all'ascolto, dalla geografia di un passato musicale che non smette mai di affascinarci, come una sorta di dime novel della musica del diavolo. In un'operazione di grande modestia quindi anche Menabò sparisce alla vista e in un testo dalla versione più che spartana (nessuna introduzione, prefazione, postfazione o altro, che pure avremmo amato leggere..) non fa altro che alimentare la "Leggenda" che sta ad altri spiegare: a noi, il solo piacere del racconto, come una storia orale a una grigliata sul fiume, con Charlie Patton, Peetie Wheatstraw, Blind W. Johnson, senza Robert ma con Memphis Minnie, e tanti altri che non abbiamo mai conosciuto ma abbiamo qui l'occasione per farlo.
(Matteo Fratti)

Pierluigi Lucadei
Ascolti d'autore

[Galaad edizioni]
pp. 178

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"Tutti i compositori, tutti i musicisti sono fuori di testa" risponde Rick Moody ad apposita domanda e giusto per il rispetto dovuto alla categoria, bisogna dire che anche gli scrittori non se la cavano male e, da quello che si capisce leggendo Ascolti d'autore, se non fosse per la musica, la loro sanità mentale sarebbe una chimera. Pierluigi Lucadei ne ha raccolto gusti, impressioni, suggestioni in una lunga serie di interviste che comprende scrittori da entrambe le sponde dell'Atlantico, Italia compresa. La presenza americana è maggioritaria (sia per quanto riguarda gli scrittori, sia per quanto riguarda la musica) e l'elenco degli Ascolti d'autore comprende, tra gli altri, Michael Chabon (primo dei fatidici, miglior cinque album di sempre: Marquee Moon dei Television), Paul Harding (con un passato da musicista che gli fa dire: "L'esperienza come batterista ha influenzato moltissimo la mia scrittura e il suo ritmo. Intuisco il tempo della mia prosa, il numero di battute, ancora prima di aver capito il senso della frase che sto scrivendo"), David Leavitt, Joe R. Lansdale (gli American Recordings di Johnny Cash al primo posto), Michael Dahlie e Dana Spiotta che prova a spiegare, un po' meglio degli altri, il legame con la musica: "Noi leghiamo delle tracce alle cose che ricordiamo: la musica è una di queste tracce. Una canzone può riportarti alla mente un'intera estate, o una sensazione vividissima. Mi piace il modo in cui la musica elude la nostra logica". Consigliato.


 


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