A.B. Guthrie
Il grande cielo

[Mattioli 1885]
pp. 449

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Boone Caudill è diventato uomo sulla frontiera. Quella vera e quella immaginaria al tempo stesso, quella che non è mai stata eppure è sempre esistita. Il grande cielo la tratteggia con la stessa dose di romanticismo e crudezza, mai perdendo il senso della storia, della verità degli uomini che l'hanno costruita. Per questo è un grande romanzo, difficilmente liquidabile come un banale esempio di letteratura western da cartolina. Nella pagine di A.B. Guthrie, narratore di quelli schivi e burberi (come un altro grande rinnegato, Wallace Stegner) riecheggia il senso del mito di Mark Twain e della "Great American Novel", il divenire di una nazione giovane e da costruire narrato sulla violenza, la sopraffazione, il commercio di bestie e di uomini, senza distinzione alcuna. Pubblicato nel 1947 e prima tappa di una saga che si comporrà di ben sei libri (il secondo della serie, The Way West, porterà all'autore un Pulitzer), Il grande cielo è l'allegoria di un paese che si è sviluppato distruggendo se stesso, protetto dalla favola della frontiera come luogo di libertà, nascondendo invece il prezzo durissimo di quest'ultima. Guthrie lo scriverà con in mente i paesaggi incontenibili del Montana, luogo dove il padre trasferì tutta la famiglia per lavoro: "il primo giorno a Choteau si alzò presto e uscì di casa. In alto e ovunque si girasse c'era questo grande cielo, il più intenso, il più azzurro, il più enorme che avesse mai visto", scrisse Guthrie del padre e alla sua rivelazione dedicherà il titolo del libro. Il quale contiene un personaggio incredibile, un giovane americano anti-eroe, roso dal desiderio di libertà e dall'insofferenza per le regole. Boone Caudill scappa di casa che è ancora un ragazzino: un padre violento che finisce quasi per ammazzare durante una lite, il destino della famiglia segnato dal duro lavoro nei campi del Kentucky. Oltre c'è uno spazio infinito e il sogno di diventare un cacciatore, come quel vecchio zio, Zeb, che tanti anni prima se ne è andato in cerca di castori. Sulla strada - ed è il caso di sottolinearne la portata simbolica, che tanto farà accostare il romanzo di Guthrie ad anticipitore delle tematiche della beat generation - Boone incontra Jim Deakins e Dick Summers, personaggi "bigger than life" come lui. Insieme saranno tredici anni (dal 1830 al 1843) di fiumi navigati, piste percorse a cavallo e a piedi, incontri e scontri con le tribù dei nativi e amori consumati con le squaw che gli indiani scambieranno per pelli di bisonte, tabacco e polvere da sparo. Tutta questa vita selvaggia svelerà piano piano la lotta impari con il "progresso" e l'ingordigia dell'uomo, che è in fondo la stessa di Boone e dei suoi compagni, anche se non se ne accorgono, e ancora di più di quelli che guardano al West come ad un affare. Il saggio amico Dick Summers dirà infine a Boone"Siamo partiti per fuggire da qui e goderci la libertà, ma era destino che la gente ci seguisse e che i castori finissero e che gli indiani venissero uccisi o ammansiti, e che quei posti divenissero sempre più conosciuti e sicuri". La frontiera era dei più rapaci, l'uomo la distruggeva perchè in fondo l'amava: questa la terribile contraddizione.
(Fabio Cerbone)

Kurt Vonnegut
Quando siete felici, fateci caso

[Minimum Fax]
pp. 107

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Se c’è stato un libero pensatore sul finire ventesimo secolo, è proprio lui, Kurt Vonnegut. Nei suoi discorsi ai laureati, in un bel pezzo di storia americana che va dal 1978 al 2004, allinea preoccupazioni e idee (parecchie) senza perdere un filo della sua caustica ironia. Le sue iperboli e le sue esortazioni rispecchiano una verve inimitabile: temi e frasi si ripetono e si rincorrono (anche se è curioso andare a spulciare le sottili variazioni in corso d’opera) e comunque Kurt Vonnegut si conferma un oratore arguto e frizzante, non molto diverso dallo scrittore, sempre ispirato e senza tante remore nel dire ciò che pensa. Lo spiega nel dettaglio anche Dan Wakefield nell’introduzione a Quando siete felici, fateci caso: “Nel suo modo di parlare e di scrivere, Vonnegut riusciva sempre a tirare fuori le parole e le espressioni schiette che la gente pensava ma non diceva, le idee che esprimevano sensazioni intime, che facevano vacillare i preconcetti e spingevano il lettore a guardare le cose da un’angolazione diversa. Era quello che puntava il dito sulla questione fondamentale di cui nessuno parlava, quello che vedeva che il re era nudo”. Per essere americano, e in America, e nello specifico tra le mura degli ambienti accademici, tradizionalisti e conservatori per definizione, non è poco, anzi. Kurt Vonnegut è esplicito, senza freni, limiti o censure: “Eccola, in breve, la mia posizione politica: smettiamo di dare alle multinazionali e alle diavolerie moderne ciò di cui hanno bisogno, e ricominciamo a dare a noi esseri umani ciò di cui abbiamo bisogno”. Quando si tratta di affrontare gli spettri e gli abusi casalinghi, che si chiamino Richard Nixon o George Bush, Kurt Vonnegut usa la sciabola, che poi è quello che ci vuole: “Non c’è la minima speranza che l’America possa diventare generosa e ragionevole. Perché il potere ci corrompe, e il potere assoluto ci corrompe nella maniera più assoluta”. En passant, tra un aneddoto e l’altro, perché ci tiene sempre a strappare un sorriso, cita Edward Gibbon (“La storia, di fatto, è poco più che la cronaca dei crimini, delle follie e delle disgrazie dell’umanità”), regala una sintesi memorabile della storia (e del senso ultimo) del blues, racconta di quando ha fumato con Jerry Garcia, elenca i suoi eroi (letterari), tra cui Carl Sandburg e Edgar Lee Masters. Convinto che “uno scrittore è innanzitutto un insegnante”, Kurt Vonnegut infila sempre qualche utile suggerimento: “Praticare un’arte, non importa a quale livello di consapevolezza tecnica, è un modo per far crescere la propria anima, accidenti. Cantate sotto la doccia. Ballate ascoltando la radio. Raccontate storie”. Se scegliete l’ultima opzione, bisogna rispettare la regola numero uno (e quanto pare, l’unica): “Non usate il punto e virgola. E’ un ermafrodito travestito che non rappresenta assolutamente nulla. Dimostra soltanto che avete fatto l’università”. L’augurio finale è squillante, come si conviene, prima di rompere le righe: “C’è un sacco di pulizia da fare. C’è un sacco di ricostruzione da fare, sia a livello spirituale che materiale. E, ripeto, ci sarà un sacco di felicità. Mi raccomando, rendetevene conto!”. Ci proveremo.
(Marco Denti)

   

Colum McCann
TransAtlantic

[Rizzoli]
pp. 350

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In volo sopra l’Atlantico, un aereo di legno e di tela accompagna una lettera verso la fine di un’epoca, e l’inizio di un’altra, “la distanza finalmente annullata”. La minuscola corrispondenza è il misterioso elemento di un viaggio nel ventesimo secolo che ondeggia avanti e indietro, risale al 1845 e arriva fino ai nostri giorni ed è punteggiato dagli incontri e dagli incroci nel tempo e nello spazio, lungo le coste tra America e Irlanda, tra fiction e realtà, perché “le nostre vite sono spesso catapultate all’interno di lunghe orbite migratorie”. Questi tracciati s’intersecano con gli eventi e i personaggi storici, che vedono, tra i più importanti, il viaggio di Frederick Douglass in un’Irlanda povera e buia e gli sforzi di George Mitchell nel processo che portò all’accordo del venerdì di Pasqua nel 1998. Per la prima volta nella sua vita, Frederick Douglass venne trattato “non come un colore, ma come un uomo”, solo che deve confrontarsi con la miseria e la carestia prodotte da quell’occupazione che Colum McCann definisce “autocolonialismo”. Un fantasma che riappare più di cent’anni dopo, quando George Mitchell, “man of peace” americano insiste con “la necessità di non smettere mai e poi mai di ripetere ciò che è già stato detto”, fino alla firma degli accordi. Le contraddizioni del “secolo breve”, “come le nostre vite vengono intrecciate dalle guerre, così il mistero ci tiene uniti”, dai due conflitti mondiali alla secessione americana ai “troubles” irlandesi si riflettono nella vita di una folla di personaggi il cui unico sogno è “giungere a destinazione”, ma devono scontrarsi con gli eventi storici che cadono dal cielo come una pioggia inaspettata, nonchè con “il mondo intero in costante movimento. Sempre di fretta. Le leggi ineluttabili della nostra autoimportanza. In quanti siamo lassù in questo esatto istante? A guardarci dall’alto, sparpagliati nel confuso e sfocato panorama qui in basso? Che strano osservarsi riflesso nel vetro, quasi fosse contemporaneamente dentro e fuori. Il ragazzino che osserva l’uomo ridiventato padre sorpreso tanto per cominciare di essere lì. La vita, e il suo talento nel distribuire gli imprevisti sempre che nulla giunga mai a compimento”. Colum McCann è uno scrittore che ha un suo particolare tatto, ormai riconoscibile, nel trattare temi esplosivi. E’ una specie di artificiere della parola e del racconto che sa disinnescare e rendere agibili anche le contorsioni più pericolose perché “è sempre una grossa tentazione, raccogliere la schiuma che nottetempo si è formata sul mondo: quale sommossa ha scosso la città, quale elezione è stata truccata, quale povero barman si è ritrovato a spazzare sui cadaveri”. Così, proprio come la busta che ha solcato l’Atlantico rimane un messaggio nascosto al riparo delle guerre per un secolo, TransAtlantic resta sospeso tra una sponda e l’altra, naviga a vista e Colum McCann è sorpreso, più di tutto, per “come il linguaggio a volte ci diserti, per come il futuro riservi domande che dovevano essere poste in passato, per come le parole ci possano sfuggire così facilmente, abbandonandoci lì, alla loro ricerca”. L’interrogativo trova una sua definizione nella sfumatura finale di TransAtlantic, crepuscolare e non priva di una sua delicatezza: è un piccola via d’uscita e insieme una coda enigmatica per un bel romanzo, con uno stile semplice e diretto, per quanto non allineato nelle questioni che lascia lì, tra un cielo e un mare che sembrano specchiarsi l’uno nell’altro.
(Marco Denti)

T.C. Boyle
Gli amici degli animali

[Feltrinelli]
pp. 461

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Gli amici degli animali si contendono la difesa dei fragili ecosistemi delle Channels Islands, al largo della California. Dave LaJoy è un attivista antipatico e insopportabile, ma è nel giusto perché si fa guidare da un solo comandamento: non uccidere. Alma è politically correct, ma nei suoi interventi di conservazione e/o ripristino c’è l’ambiguità della supponenza di poter decidere il destino degli eventi naturali con strumenti artificiali, se non proprio artificiosi. Il contrasto emotivo tra i protagonisti pare una semplificazione, ma l’ordine delle cose non è così: c’è molta della condizione isterica del nostro mondo che Gli amici degli animali interpretano, come se i tentativi, opposti e speculari, con cui cercano di ripristinare il caos appartengano più ad una dimensione empirica che scientifica, amplificata dalla particolare cornice insulare e marina. Come scriveva Judith Schalansky nel bellissimo Atlante delle isole remote: “L’isola appare un mondo sé stante, ancora allo stato naturale originario, come il paradiso prima del peccato originale, impudico ma innocente”. L’introduzione naturale o artificiale (quale che essa sia) di una specie, implica il rischio, l’eventualità, più che probabile, di una trasformazione repentina della vita, di un ribaltamento della catena alimentare. E’ la storia (vera) del boiga irregularis, che introduce il tema corrente tra Gli amici degli animali: è una bella creatura di tre metri che, arrivata in modo fortuito sull’isola di Guam, si è moltiplicata per tre milioni e mezzo di esemplari, trasformando l’isola in un nido di serpenti. Il dilemma della sovrappopolazione e della convivenza (e della sopravvivenz)a di forme di vita diverse sullo stesso, limitato pianeta è il nocciolo degli scontri che Gli amici degli animali sovrappongono a battaglie di ego insaziabili. E’ una storia dei nostri giorni, una storia paradossale, volendo, che racconta i pericolosi malintesi che si accumulano nel convulso rapporto tra l’uomo e la natura (o il suo consumo). L’idea al centro del corto circuito, che il genere umano possa decidere di vita o morte su tutti, si rivela in modo diverso e drammatico sia ad Alma che a Dave LaJoy e T. C. Boyle è molto lucido nel far capire che, in realtà, l’unico deus ex machina è il caso. Gli amici degli animali è avvincente nel ritmo, essenziale nella scrittura, molto pertinente e urgente nel rivelare le contorsioni del genere umano di fronte ai processi naturali, come se T. C. Boyle avesse letto La natura delle cose nel De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro: “Vediamo che la natura, nel dissolvere i corpi, libera i vari elementi ma non li distrugge: se no tutto potrebbe cessare all’istante di esistere se contenesse in se stesso qualche elemento mortale non occorrendo che giunga una forza a dividere le parti di cui si compone e a disfarne la trama”. Come diceva T. C. Boyle in un’intervista: “Io penso che tra 50 anni andrà a finire come raccontava Cormac McCarthy con La strada. Noi mangeremo tutto e quando non ci sarà più nulla, ci mangeremo l’un l’altro. Ma il mio piano, personalmente, è morire. Questo è come affronto la questione”. Non è l’unico omaggio a un grande scrittore che riserva T. C. Boyle: Gli amici degli animali cela anche un tributo per La fiera dei serpenti di Harry Crews utile a comprenderne il finale, beffardo e perfetto.
(Marco Denti)


 


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