Levi Henriksen
Norwegian Blues

[Iperborea 380 pp.]

di Marco Denti

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L'autenticità nel rock'n'roll è un paradosso, essendo l'oggetto del desiderio che resta un desiderio, la ricerca di una perfezione che non sarà mai perfetta, la speranza che si tramanda all'infinito. L'autenticità è una chimera, anche quando è ricostruita in laboratorio, ovvero nei corridoi degli studi di registrazione e degli uffici delle etichette discografiche. E' sempre stata un miraggio, e in questo è diventata un tratto determinante delle caratteristiche sognanti e ideali del pop, ma a maggior ragione con l'evoluzione tecnologica si è evoluta in una sorta di trompe-l'œil che già un illuminato Theodor W. Adorno (in Long Play e altri volteggi della puntina, Castelvecchi) riassumeva così: "L'ascoltatore di grammofono non si augura altro che ascoltare se stesso e l'artista gli offre un semplice surrogato dell'immagine sonora della sua persona, che egli vorrebbe custodire come sua proprietà. Solo per tale motivo l'artista accetta il disco poiché anch'egli potrebbe essere conservato allo stesso modo. I dischi non sono altro che fotografie virtuali dei loro proprietari: sono ideologie, volendo essere lusinghieri". In quello scarto c'è tutto il processo della produzione discografica, dall'incisione alla promozione, che è in sé l'inseguimento di un surrogato perfetto dell'autenticità, ricerca frustrante perché il surrogato alla fine ha sempre la meglio. Questo implicito fallimento è il destino di ogni produttore discografico a qualsiasi livello lo si voglia collocare (A&R, artistico, esecutivo) e quelli che rimangono sulla cresta dell'onda a lungo, tanto da diventare veterani e da guadagnarsi un onesto riconoscimento alla carriera, o si accontentano di un compromesso più o meno dignitoso, o se ne infischiano e pensato soltanto a tirare fuori un bel suono, ovvero un bel surrogato, e amen.

Il protagonista di Norwegian Blues, Jim Gystad è stato un produttore (non organico a un'etichetta, proprio un talent scout con tanto di studio di registrazione) a cui sembrano essere sfuggite le occasioni migliori. Capita, ma non è soltanto una questione di opportunità o fortune mancate: è arrivato a un punto di saturazione, tanto da non sopportare più le dinamiche e il vocabolario dell'industria discografica. Per dirlo con le sue parole, "non riuscivo a ricordare l'ultima volta in cui io e una casa discografica avevamo avuto la stessa opinione su ciò che davvero rende promettente un artista", e su questo punto, qui, siamo in buona e numerosa compagnia. In più, a Jim Gystad ormai manca proprio la scintilla, essendo convinto che "i momenti magici della musica scaturiscono proprio dall'imprevedibilità. Quando si sbaglia un collegamento e ciononostante ecco la luce, ecco la vita che colma il cuore di qualcosa impossibile da spiegare". Arrivato a quello stadio, e al livello a cui ormai sappiamo è giunta l'industria, il disorientamento (che è suo, non meno che nostro) è inevitabile e comunque, dal punto di vista emotivo è abbastanza scoperto da essere colpito dalle voci delle sorelle (e fratello) Thorsen, ascoltati in occasione del battesimo del figlio di un suo amico. La sorpresa è tanto e tale che confessa al suo ospite: "Ricordi come ci sentivamo quando da ragazzi scoprivamo qualcosa di diverso? La prima volta che abbiamo ascoltato un nuovo artista, o letto un libro, o guardato un film, o baciato una ragazza... Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ti è capitato di sentirti così?", e la domanda rimane nell'aria. Nell'occasione, nonostante la sua percezione sia compromessa in tutti i sensi dai postumi di una seria sbronza, Jim Gystad riesce ad avvertire qualcosa che non sentiva da tanto, troppo tempo: un brivido lungo la schiena.


The Carter Family
Wildwood Flower
(from The Grand Ole Opry)

I Thorsen sono una sorta di Carter Family scandinava composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela una storia parallela al Norwegian Blues, ma merita di essere scoperta a parte) e Maria e dal fratello Timoteus, un musicista pronto a fracassare un mandolino (Pete Townshend docet) se non tiene l'accordatura. Nella loro carriera hanno soltanto interpretato inni religiosi (pentecostali), spesso con arrangiamenti fantasiosi ed eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età, si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno sentire nominare per sbaglio l'industria discografica. Non hanno tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian Blues, "la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show dal cast accuratamente selezionato". Siamo sempre lì, peraltro accuratezza e selezione sono poco più che optional.

Ammaliato dalle armonie, Jim Gystad abbandona la città (Oslo) e parte all'inseguimento dei Thorsen, con l'idea di convincerli a tornare in studio di registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il "bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l'animo delle persone". Per lui l'autenticità vuol dire Howlin' Wolf, Bukka White, John Fogerty, John Lee Hooker, Hubert Sumlin, Chet Baker, una maglietta dei Rolling Stones ma l'indizio più importante riporta a Music From The Big Pink della Band, forse il paradigma (con i Basement Tapes per logica estensione) di un'ipotesi concreta di autenticità. Jim Gystad descrive così la sua fonte d'ispirazione: "Il miglior album del gruppo canadese-statunitense The Band è stato inciso in una villa rosa a West Saugerties nello stato di New York, e io sono convinto che il sound sarebbe stato molto diverso se la Band si fosse riunita in un normale studio discografico. La cosa migliore dell'intero disco è forse proprio tutto ciò che la Band non suona, che lascia in sospeso, che osa tralasciare, ma che l'ascoltatore percepisce comunque". Quello che ricorda Jim Gystad è solo una parte, e nemmeno la più importante, ma ci va molto vicino visto che quei nastri Ed Ward li definiva "enigmatici", e non senza ragione. Lo spirito di Big Pink era pervaso da un'incoscienza da rabdomanti ed è quell'estrema curiosità raccontata in lungo e in largo da Greil Marcus in Mystery Train: "Il suono della voce del cercatore ci dice che il suo primo desiderio è semplicemente essere lasciato da solo (lasciato solo dagli amici, nemici, vicini, donne, parenti, cani, il bene e il male), ma era nato con occhi e orecchie ben aperte, e si accorgeva di tutto. Non riesce a smettere di fare domande e senza altro che le migliori intenzioni, lui inciampa in qualunque cosa incontri sulla sua strada. E siccome è affascinato da qualunque cosa che tutti noi diamo per scontato, si trova intrappolato con i suoi compari, uomini e donne, e inevitabilmente i loro problemi diventano i suoi". Guarda le coincidenze: questo è il ritratto completo di Jim Gystad a cui vanno aggiunge anche le similitudini geografiche, che rimangono chiarissime, nonostante le distanze.


The Band
I Shall Be Released
(from Festival Express)

L'accostamento bucolico di Big Pink vale anche per il paesaggio della Norvegia che, pur stagliandosi in tutta la sua austera bellezza, non è molto diverso dal resto del mondo. L'autenticità della natura (forse l'unica possibile) è segnata dall'insensato sfruttamento del territorio, stravolto dall'invasione dei campi da golf e scorticato dalle cave di ghiaia, in cui, per inciso, Jim Gystad trova ispirazione persino dalla sequenza ritmica prodotta dal rumore di un vaglio meccanico. Oltre al paesaggio, la rocambolesca avventura lascia affiorare tutte le pieghe dell'avidità (l'antipatico nipote dei Thorsen), della superficialità (i discografici di turno, il cui intercalare è completamente afono), dei rimpianti e dei rimorsi che sono gli ostacoli con cui deve misurarsi Jim Gystad, ancora più che con l'arcigna ritrosia dei Thorsen. L'obiettivo dichiarato (l'incisione di un disco) resta molto lontano e sfumato sull'orizzonte, ma intanto quei mesi tra i laghi e i fiumi ghiacciati, la neve e il freddo, i piccoli lavori di manutenzione per sbarcare il lunario e persino il confronto con i Thorsen gli restituiscono "la gioia di lavorare con la musica senza dover pensare alla formattazione e alle esigenze di mercato". E' un primo passo verso un altro livello di consapevolezza perché per i Thorsen, "la musica parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso" e, compreso il finale (a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing o una rarità destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è nemmeno una meta definitiva. E' il riflesso naturale di valori vissuti e difesi fino in fondo.

La morale è naturalmente inclusa nel prezzo: Levi Henriksen (classe 1964) ha l'età giusta per aver assistito all'exploit di Nick Hornby con Alta fedeltà (Guanda) da cui Norwegian Blues recupera un appassionato spacciatore di vinili (a cui viene assegnato il nom de plume di Jethro Tull, guarda un po') che aiuterà Jim Gystad e ne assume il tono della commedia agrodolce. Una leggerezza che non è banale perché Norwegian Blues, sempre con garbo e ironia, lascia emergere più di una possibilità di approfondimento. Con l'evolversi della storia, in particolare nella seconda parte, Levi Henrikesn sposta l'attenzione dall'ossessione per la musica, verso gli affetti, i legami, i sentimenti, la famiglia e, non ultima, la casa. Lasciando intendere, dove ce ne fosse bisogno, che la musica (autentica o no) è senza dubbio una salvezza, una via di fuga, una passione, ma non è mai autosufficiente. L'altro messaggio, nemmeno tanto nascosto, è che "tutta la grande arte dovrebbe perseguire il giusto errore" e sarà in omaggio a quell'astrazione che nella coda finale di Norwegian Blues, Jim Gystad ormai entrato in confidenza con i Thorsen gli propone di interpretare Two Hands di Townes Van Zandt. L'autenticità resta un mistero, ma Townes Van Zandt non si discute.


Townes Van Zandt
Two Hands
(from High, Low And In Between)

 



 


<Credits>