Paolo Mazzucchelli
I vestiti della musica
Viaggio fra le meraviglie delle copertine dei dischi

[Edizioni Ernyaldisko – 2017, pp. 123]

di Donata Ricci

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Mistico o mistificatore? Questo il quesito, vergato in inchiostro rosso da un acquirente sconosciuto, sul volto allampanato del buon Claudio Rocchi. L’album era La norma del cielo e planò nelle mie mani da un mercatino dell’usato. Ancora oggi resto curiosa dell’autore di quell’interrogativo e del suo shakespeariano dilemma, rilasciato alla stregua di un messaggio in bottiglia, a dimostrazione che anche così è possibile veicolare punti di vista e intavolare dialoghi con chicchessia. In fondo le copertine dei dischi si possono amare anche per questa loro attitudine a passare di mano in mano e a modificarsi nel loro itinerare, acquisendo saperi e consegnando suggestioni. Ma soprattutto sono interessanti per la loro capacità di trasformarsi “da semplice contenitore anonimo a vero e proprio strumento di marketing, a mezzo di comunicazione fra l’artista e il suo pubblico, sino a divenire autentico oggetto d’arte e specchio della creatività di alcune delle menti più “sognanti” dei passati decenni”. Bene ha fatto Paolo Mazzucchelli - appassionato e conoscitore che da più di trent’anni si occupa di promozione musicale e di valorizzazione della scena camuna e dell’Alto Sebino - a trasporre su carta lo spettacolo multimediale che porta in giro per l’Italia (consigliatissimo). Edito da Ernyaldisko (complimenti per il nome) I vestiti della musica è un piacere per gli occhi ma anche per le orecchie, poiché ogni capitolo è corredato da una lista di ascolti consigliati durante la lettura. Copre un arco di tempo che va dagli Anni Quaranta fino alle soglie del nuovo millennio. Partendo dalle primordiali intuizioni di Alex Steinweiss, graphic designer considerato l’inventore delle copertine degli album in vinile, fa tappa negli Anni Cinquanta quando sono le piccole etichette di jazz a dimostrare maggiore attenzione alla grafica. Blue Note, Verve, Prestige e Riverside sviluppano un proprio stile inconfondibile, che a quanto pare fa proseliti ancora oggi, visto che i Dream Syndicate hanno attinto ai colori sociali della Impulse per il loro How did I find myself here?

Avanzando con rigore cronologico si approda poi alla stagione della psichedelia, ispiratrice di copertine fantasmagoriche, vere esplosioni cromatiche in cui anche il lettering (l’uso dei caratteri tipografici) risulta stravolto, verrebbe da dire psicotropamente deformato, fino a farsi criptico eppure immediatamente riconoscibile. Su tutte Aoxomoxoa e in generale le cover licenziate dai Grateful Dead; ma anche The psychedelic sounds of the 13th Floor Elevators, Disraeli Gears dei Cream e l’artwork di Cheap Thrills commissionato al fumettista Robert Crumb.

E potremmo continuare a lungo se non incalzassero gli Anni Settanta, durante i quali l’interesse per le copertine da parte di artisti e case discografiche si fa ancora più spiccato. Il formato apribile diventa la norma ma c’è dell’altro: se ne trovano di sagomate (Bandstand dei Family ha la forma di una radio a valvole), anamorfiche (No Earthly Connection di Rick Wakeman bisogna osservarla come fosse una figurina dei formaggini Mio), profumate (su Garden in the City di Melanie è apposto un bollino scratch ‘n’sniff, vale a dire sfrega e annusa). Ma i Settanta sono soprattutto il decennio del punk, pertanto la grafica delle cover, coerentemente con i principi del movimento, non può che essere essenziale (Never Mind the Bollocks dei Sex Pistols), black and white oriented (il lavoro omonimo dei Ramones), provocatoria (Go 2 degli XTC è una sorta di trattato – sostanzialmente una presa per i fondelli – che spiegherebbe cos’è una copertina), perfida (le prime 3.600 copie di The return of Durutti Column – in realtà non si tratta di un ritorno bensì di un debutto, giusto per attestarci sul cazzeggio – sono confezionate in carta vetrata, in modo da poter graffiare gli altri LP con cui verranno in contatto)

Come si vede, c’è tutto un mondo nelle nostre amate copertine. Contenuti elevati e meschinità, ma creatività pressochè costante, che l’avvento del supporto digitale nel 1982 ha inconfutabilmente raso al suolo. Per non parlare della musica liquida, aggiungerei. Paolo Mazzucchelli, da fervente estimatore del vinile, ne fa un’appassionata disamina. Così come spiega a chiare lettere (lui sì che ha un lettering immediato) che la vocazione artistica, o se preferiamo semplicemente l’impulso creativo, della grafica musicale, devono fare i conti con gli appetiti dell’industria di settore e con le logiche spesso illogiche del mercato, ivi compresa la cappa asfissiante della censura. Resta il fatto che le copertine dei dischi raccontano una storia, quella collettiva, che a sua volta ha generato infinite piccole storie individuali. Del resto l’autore lo dichiara da subito: le copertine che ha scelto per il suo libro non sono le più belle o le più significative in assoluto, ma quelle che hanno avuto la maggiore importanza per la sua formazione musicale. Ad ogni appassionato quindi il piacere di comporre la propria raccolta.



 


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