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Willy
Vlautin
Io sarò qualcuno
[Jimenez, pp.
255]

Sognare di partire per essere diversi, e poi ritrovarsi altrove, ancora uguali:
Io sarò qualcuno è la conferma definitiva del talento di Willy
Vlautin, ormai capace di affrontare un tema classico, quasi un cliché, in
modo originale e con una voce molto personale. C’è un’idea di riscatto, ancora
prima di affermazione o salvezza che spinge Horace Hopper alias Hector Hidalgo,
il protagonista di Io sarò qualcuno. È un sogno maturato fissando i ritagli
delle fotografie dei suoi pugili preferiti, tutti messicani, perché sono i più
duri, quelli che non mollano mai. Un dettaglio importante che serve distinguere
l’ambizione dalla realtà. È lì che Horace vuole diventare Hector, ma sa di avere
un limite, sa che per diventare un campione dovrà combattere a lungo, e soffrire,
ma in qualche modo dovrà riuscire a lottare con l’avversario più pericoloso: se
stesso, perché “è difficile correggere qualcosa che sta dentro di te”. La scelta
di Horace è drastica: sui pantaloncini della palestra fa ricamare un mitra Thompson,
abbandona l’heavy metal con cui è cresciuto, e decide di lasciare il ranch dove
vive e lavora a Tonopah, Nevada con i monti Monitor a far ombra. La sua storia
viaggia in parallelo a quella di Mr & Mrs Reese, la coppia che l’ha cresciuto
come un figlio: la speranza è il denominatore comune, ma in forme che si oppongono.
Loro credono in lui, e vorrebbero lasciargli il ranch, Horace conta solo su se
stesso convinto, al contrario, che “devi creare il tuo futuro, e devi farlo da
solo”. Per lui il ranch è il luogo dove è tutto fermo, la boxe il mezzo per andarsene
e per emanciparsi. Nel viaggio, Horace trova una ragazza incinta con un neonato,
una scena che sembra uscita da Angeli di Denis Johnson e Mr. Reese, che
lo segue, incontra due ragazzi con un cane malato, gli animali sono onnipresenti
quasi a sottolineare un’umanità sfiancata. La rincorsa all’idea di essere qualcuno,
nella convinzione (mai confermata) che “se uno lavora duro, le cose si mettono
nel verso giusto” lo vede a Tucson, poi Salt Lake City e poi El Paso fino a Las
Vegas dove trova la sua versione della Città amara di Leonard Gardner.
Le insidie sono inevitabili, ma nel contesto non sono più pericolose del panico
che si porta dietro Horace. Potrebbe avere un futuro davanti a sé, è un ottimo
incassatore e ha i colpi giusti per risolvere gli incontri, picchia “duro” e picchia
“difficile”, ma si trova sempre nell’angolo in preda al panico, immobile, e, come
se la sua ambizione lo divorasse, “era come se più si avvicinava a quello che
voleva, più si sentiva smarrito”. Dall’altra parte, a Tonopah, la vita scorre
lenta e inarrestabile. Mrs Reese non vuole saperne di muoversi, neanche per andare
a far visita alle figlie che se ne sono andate da tempo, e Mr Reese si mantiene
vigile e attivo smontando e rimontando i suoi mezzi. In effetti l’unica occasione
di movimento è quando la coppia, sorridente, sale a bordo di un trattore. A volte
per la felicità basta un motore che funziona e la scena ricorda da vicino la Trilogia
della pianura di Kent Haruf non solo per l’atmosfera rurale, quanto per la
capacità di Mr & Mrs Reese di ascoltare e comprendere, quasi una forma di compassione
di fronte ai sogni che svaniscono. La mancata redenzione, che è il negativo della
vocazione di Io sarò qualcuno, è un destino che incombe su Horace
fin dalla scelta dello pseudonimo. Se nell’Iliade, Ettore viene tradito dall’armatura
che un tempo era di Achille, Horace è condannato dalla fragilità della sua corazza,
una storia che Willy Vlautin sa affrontare con il tatto e il rispetto dovuto ai
loser, con il tono sincero di uno sconosciuto che racconta la sua storia al bancone
di un bar, senza aver nulla da perdere.
(Marco Denti) |
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Eudora
Welty
La figlia dell'ottimista
[Minimum
Fax, pp.
176]

Ritratto di signore: Laurel ha lasciato da tempo la casa dei genitori nel
Mississippi per stabilirsi a Chicago, restando vedova molto presto, con un marito
perso in guerra; Fay, povera e con una famiglia di cui si vergogna, è fuggita
dal Texas per sposare un uomo molto più anziano di lei. Le due si conoscono a
mala pena e si frequentano assai di rado, ma l'occasione di accorrere al capezzale
del giudice McKelva, padre della prima e marito della seconda, in procinto di
affrontare un delicato intervento agli occhi, produrrà il loro incontro-scontro,
un dialogo fatto di lenta ma crescente tensione tra passato e futuro, fra ricordi
e speranze che oppone due caratteri e due obiettivi distanti. In primo piano un
coro di voci sudiste e di antiche tradizioni, quelle che compongono la comunità
di Mount Salus, dove il giudice è stato anche sindaco e figura centrale per la
vita rurale dei suoi concittadini. È lui l'ottimista del titolo: lo era quando
la prima moglie Becky, madre di Laurel, si ammalò di cancro e fino all'ultimo
non volle riconoscerne la disperazione; lo è ancora adesso che si è sposato in
seconde nozze con Fay e dovrà operarsi a un occhio, rimettendosi nelle mani dell'amico
di famiglia, il dottor Courtland. Laurel e Fay si ritrovano nello studio di quest'ultimo
e accompagnano il vecchio McKelva nell'ospedale di New Orleans, da dove uscirà
cadavere. La figlia dell'ottimista descrive allora, nella pagine
più fervide e ispirate del romanzo, lo scorrere dei volti e dei giudizi che appartengono
di diritto alla comunità di Mount Salus, dove la salma del giudice viene trasportata
per l'ultimo saluto. La preparazione, lo svolgimento e i momenti successivi al
funerale di McKelva sono il piccolo capolavoro di costruzione narrativa di Eudora
Welty, che lascia confluire come in un coro gospel le sentenze, i pettegolezzi,
le verità presunte di tutti i personaggi che hanno conosciuto il giudice in vita
e prime fra tutte le protagoniste: Laurel, "una donna dall'aria tranquilla", Fay,
sposa e vedova nell'arco di un solo anno e mezzo, e naturalmente Becky, quella
prima moglie che resta sempre sullo sfondo come una presenza ingombrante. Le donne,
appunto, assolute mattatrici di questo breve romanzo, nato come racconto alla
fine degli anni sessanta e apparso sulle pagine del New Yorker, per essere poi
rielaborato dalla stessa Eudora Welty e pubblicato in questa forma nel 1972, ottenendo
il Premio Pulitzer. È l'opera della maturità per l'autrice di Jackson, Mississippi,
voce essenziale della letteratura sudista al femminile al fianco di Flannery O'Connor
e Carson McCullers. Con uno stile peculiare, spesso condito da una leggera ilarità,
qui attento più che mai sia agli aspetti comunitari sia a quelli individuali e
domestici dei personaggi, Eudora Welty ci accompagna nella casa dei McKelva ricostruendone
la storia attraverso i dialoghi delle "damigelle", le amiche di infanzia di Laurel,
dei vicini di casa e delle due protagoniste/antagoniste femminili. Già, Laurel
e Fay, mai caratteri più distanti: la prima all'inizio è quasi in disparte, intimidita,
acquisendo nel tempo la consapevolezza della morte del padre e con essa le immagini
della madre Becky e dell'amore dei due genitori; la seconda è invece un turbine
di sentimenti e capricci, una ragazza viziata e insoddisfatta, che con le sue
battute taglienti sembra lottare contro un'intera umanità, quella di Mount Salus.
"La storia di chi? Il passato di chi? Non i miei. Il passato non mi interessa.
Io appartengo al futuro, non lo sapevi?", sentenzierà a un certo punto Fay nei
confronti di Laurel, in quella esplosione finale che inevitabilmente contrapporrà
le due figure.
(Fabio Cerbone) | |
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James
Still
Fiume di terra
[Mattioli
1885, pp.
215]

Ospiti in una radura tra i boschi del Kentucky, i Baldridge raschiano il fondo
del barile (dove conservano la carne), a volte sfiorando soltanto un rimasuglio
di sale. Oppure raccolgono “zucche selvatiche e altre erbe commestibili”. Se ha
le munizioni (il più delle volte non ci sono) il padre va a caccia di scoiattoli
e conigli. La fame è persistente: “Non c’era abbondanza di cibo e mangiavamo tutto
quello che ci veniva messo nel piatto, senza mai lasciare una mollica, né una
briciola”. Come se non bastasse, la casa (poco più di una baracca, piena di spifferi)
va a fuoco. È una vita ai limiti della sussistenza, esposta alle intemperie e
senza alcun ausilio. Le uniche autorità, lo sceriffo e il prete, si presentano
soltanto per la prigione o un funerale. L’ottica è la sopravvivenza, giorno dopo
giorno, riassunta così da Brack Baldridge, quando il figlio gli esprime il desiderio
(inarrivabile) di avere un puledro: “Non ha senso cercare di guardare troppo lontano.
È meglio che tieni gli occhi fissi sulle cose dell’oggi, e lasciare che il resto
accada secondo legge e profezia”. Il punto di vista infantile consente a James
Still di usare un tono agrodolce che, pur senza mitigare il dramma della miseria,
della disoccupazione, di una vita aspra e dolorosa, riesce a definire con precisione
la condizione vissuta dalla famiglia Baldridge. Ogni giornata ha la sua pena,
e qualche rara, piccola gioia, e, aneddoto dopo aneddoto, si scontrano due prospettive:
il padre vorrebbe tornare a fare il minatore, un lavoro che gli ha garantito uno
stipendio, la possibilità di spendere i soldi, e una casa. Forse, un minimo di
sicurezza, e quel po’ di orgoglio di essere in grado di mantenere la famiglia.
La madre vorrebbe restare in campagna dove, con un clima appena favorevole, il
raccolto si fa generoso quel tanto che basta ad accarezzare l’idea dell’indipendenza.
Anche se la famiglia Baldridge risponde quotidianamente ai bisogni primari mettendo
a dura prova la propria dignità, tra queste due opzioni si estende solo un’estrema
povertà. La dicotomia, ancora attuale, tra i processi di industrializzazione ovvero
di sfruttamento dell’ambiente e delle persone e l’autosufficienza delle piccole
comunità rurali, è un solco profondo, una ferita insanabile. In più, come scriveva
Alessandro Portelli in Canoni americani, “la miniera diventa a sua volta
un passaggio fra mondi visibili e mondi invisibili”, questi ultimi sospesi nell’illusione,
in speranze destinate a infrangersi contro gli umori del mercato. Attratto dalle
miniere, spinto dalla convinzione di conoscere a fondo il suo lavoro, Brack Baldridge
costringe la famiglia ad assecondare l’evoluzione del prezzo del carbone. Gli
impianti vengono chiusi e riaperti e chiusi, le giornate di lavoro ridotte, i
minatori licenziati. Se sulle colline, come dice il piccolo protagonista di Fiume
di terra, “eravamo convinti di passarcela abbastanza bene, per cui non
ci lamentavamo”, a Blackjack, un villaggio minerario destinato a diventare una
ghost town, devono confrontarsi con un’umanità sconfitta. La vita in miniera ha
i suoi pericoli (a partire dalla dinamite) e i suoi limiti che non tardano a manifestarsi:
l’accostamento tra i Baldridge e la famiglia di Tom Joad di John Steinbeck (Fiumi
di terra e Furore sono contemporanei) è inevitabile, ma la scena finale
evoca Mentre morivo di William Faulkner: stessa America, stessa disperazione.
(Marco
Denti) | |  |
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Kent
Haruf Vincoli
(Alle origini di Holt)
[NNEditore,
pp.
260]

Nelle sue “origini” Holt era immaginaria né più né di tutto il resto del West.
Siamo sul finire del diciannovesimo secolo e il corto circuito nasce dal fatto
che l’arrivo nelle praterie, forzato dalle promesse del governo federale, dai
toni enfatici della pubblicità e dagli interessi dell’industria ferroviaria, scoperchiava
un’amara verità. L’Eden degli opuscoli non esisteva: la terra era piena di sabbia,
il clima ostico e gli alberi, rigogliosi sulle cartoline, erano cespugli aridi
e contorti. Il lavoro di contadini e allevatori sarebbe stato duro, faticoso,
doloroso, animalesco. Sulle donne, oltre alle infinite incombenze domestiche,
gravava anche il peso di edificare una parvenza di civiltà. Il ritratto, che mette
in luce molti dei Vincoli di Ken Haruf, è falsato in giusta
misura dalla speranza, visto che non esisteva alcuna possibilità di tornare indietro,
ma ha il merito di far risaltare, per contrasto, la personalità di Roy Goodnough.
Il suo nome nasconde già un calembour perché è buono, ma non abbastanza: scarica
tutte le frustrazioni su se stesso, sulla moglie Ada, sui figli Lyman ed Edith,
costretti a sopportarlo, come se non bastassero le asperità della vita dei coloni.
Legami che uniscono, e che dividono: Vincoli racconta la difficoltà di
essere figli e figlie, di essere una famiglia attraversata da piccole e grandi
scosse, smottamenti lenti e graduali o tratti che si sgretolano all’improvviso.
Non sono solo i Goodnough, ci sono anche i Roscoe, e in particolare Sanders che,
in quella che è quasi una lettera aperta, illustra direttamente al lettore, i
tentativi di comprendere “la semplice, intensa magnifica bellezza del sentirsi
vivi giorno dopo giorno, quando di sera vai a dormire nella calda oscurità, soddisfatto
del tuo angolo di mondo, e poi ti svegli al mattino ancora soddisfatto e ne sei
ben consapevole mentre resti sdraiato per un po’ ad ascoltare in pace il richiamo
delle tortore dagli olmi e dai fili del telefono, finché al pensiero di un caffè
nero finalmente decidi di alzarti dal letto, scendere le scale e andare in cucina,
ai fornelli, per ricominciare tutto daccapo con piacere, addirittura con impazienza”.
Il tono del racconto, placido, lineare, senza sbalzi, aiuta a collocare sorprese
e colpi di scena, le nascite e le morti, le lunghe giornate impigliate nel filo
spinato dei recinti, le fughe e le attese e, più di tutto, quei Vincoli
che superano gli steccati. Sanders Roscoe ci dice che possiamo allontanarci finché
vogliamo, quanto possiamo, ma torneremo sempre lì, dove “i legami erano stati
sciolti, i confini di casa varcati”. Usando la sua voce, Kent Haruf dissemina
possibilità, ma non costringe il lettore a inseguirne nessuna. Si torna lì, a
quelle due case sulle colline, attorno a cui ruotano gioie (poche), dolori (parecchi),
fatiche (immense) e una difficoltà insormontabile di collimare il tempo, tanto
è vero che, Edith aspetta per anni il fratello, e Lyman non le concede nemmeno
un attimo per non distrarsi dai suoi fantasiosi viaggi. L’inizio e la fine coincidono
e la natura stessa del paesaggio si rivela in tutta la sua essenza. Holt, a differenza
della Trilogia della pianura, è un po’ più sullo sfondo, delineata ma senza
tutti i dettagli che seguiranno, poi. È soltanto una frazione e l’immaginario
di Kent Haruf è scomposto, non allineato, più vicino alla cruda realtà della frontiera
che all’epopea del suo miraggio. Inevitabile l’accostamento a The River:
coincidono gli anni e il titolo della prima canzone, ma soprattutto le esperienze
dei protagonisti springsteeniani che nel loro continuo dibattersi tra partenze
e arrivi ricordano, né più né meno dei Sanders e dei Goodnough, che certi legami
non si spezzeranno mai.
(Marco Denti) | |