Willy Vlautin , The Free
[Jimenez edizioni, 251 pp.]

- di Fabio Cerbone -

La voce di Willy Vlautin è sempre di più quella di un’America che fatica a sopravvivere, ma non avessimo già imparato a riconoscerla, attraverso il suo alter ego musicale rappresentato dai Richmond Fontaine e oggi dalla creatura The Delines, avremmo scambiato erroneamente la sua letteratura (e il suo songwriting) per un realismo spietato, attraversata da quell’epica della sconfitta, popolata da beautiful loser, che non pare lasciare spazio alla speranza. Non è affatto così, e libro dopo libro, oltre a maturare come uno dei narratori americani più lucidi della sua generazione, Vlautin ha acquisito un dono incredibile per la compassione, l’amorevole cura dei personaggi e di quello che smuove la loro disperazione, nella direzione di un abbraccio, uno scambio di parole, un riconoscersi a vicenda, tale da renderli aperti infine a una nuova luce. Anche quando questa luce semba condurli verso un baratro, come accadeva nel primo, altrettanto convincente, romanzo pubblicato da Jimenez, Io sarò qualcuno, e come si ripete adesso in The Free, forse l’opera più complessa della produzione di Willy Vlautin.

L’anti-eroe al centro della storia è un'altra vittima delle bugie del sogno americano, in questo caso l’eterno inganno/illusione di trovare nell’esercito, e nella guerra, una via di fuga e magari, più prosaicamente, anche uno stipendio e un futuro. Leroy Kervin doveva solo addestrarsi nella Guardia Nazionale e starsene tranquillo, così gli avevano raccontato, ma finisce in Iraq e il suo cervello si brucia (“La vita che aveva conosciuto prima della bomba non esisteva più. Quel Leroy Kervin era svanito”). Il destino è finire prima in una casa famiglia, poi in un letto di ospedale di una cittadina dello stato di Washington, non lontano dalla pioggia e dal clima cupo di Seattle. Ha tentato il suicidio Kervin, in un momento di paradossale sensatezza: “Sapeva che se avesse chiuso gli occhi e si fosse addormentato, molto probabilmente la lucidità sarebbe scomparsa e sarebbero tornati la frustrazione, i pensieri cupi e la nebbia”.

Intorno al corpo sofferente di Leroy si muove l’intero impianto di The Free, che libera storie e personaggi i quali, come lo stesso reduce, sono incastrati dalla vita e soprattutto dalla legge della società americana, gente letteralmente inseguita dai debiti… per le bollette da pagare, per un divozio, per gli studi al college, per le cure mediche. C’è Pauline, l’infermiera che accudisce Kervin nel letto di ospedale e che ha un padre mezzo matto che l’aspetta a casa; Freddie, che aveva in custodia Kervin nella casa famiglia e che per sopravvivere ad un matrimonio in frantumi e mantenere le figlie, fa due lavori, gestendo un negozio di vernici; e ancora Jo, una ragazzina disadattata e scappata di casa che approda nelle stesse stanze dell’ospedale. C’è Darla, la madre di Leroy, che fa compagnia al figlio leggendogli romanzi di fantascienza, e ultima ma non ultima c’è l’ex fidanzata Jeanette, che entra ed esce dalla realtà stessa di Leroy Kervin.

Perché The Free è curioso proprio nella sua struttura di romanzo nel romanzo, una storia che esplode soltanto nella testa di Leroy, bloccato tra tubi e flebo, cosciente e incosciente, incapace di comunicare verbalmente, che sogna e dà corpo ad una realtà parallela nemmeno tanto diversa da quella vera. Lì dentro, in quel sogno, lui e Jeanette si conoscono per caso, ascoltando una canzone di Amalia Rodrigues, e intraprendono una perenne fuga da uno Stato che divide i buoni e i cattivi cittadini a seconda che abbiano o meno un marchio sulla pelle. Chi ne è immune sarà un “bravo soldato” e un buon cittadino, gli altri andranno incontro a ben altra sorte: “Quello che non vuoi capire è che una volta eravamo il paese più grande del mondo […] Adesso non vale più un cavolo e sono stati quelli come te a rovinarlo”. La sovrapposizione dei piani e delle esistenze, fra ciò che Leroy ha provato davvero sulla sua pelle e ciò che gli è entrato nella mente, è ben chiara, così come il nome di quella nave, The Free, che gli dà la caccia nel sogno-vita parallelo.

Nella inesorabile risoluzione di questo conflitto, Willy Vlautin porterà a compimento non soltanto il destino di Leroy Kervin ma anche di tutti i personaggi che lo circondano, liberandone in qualche modo i desideri e le speranze.


Dagli archivi di BooksHighway Blog, gli altri romanzi di Vlautin:

Willy Vlautin, Io sarò qualcuno
bookshighway.blogspot.com/2018/11/willy-vlautin.html

Willy Vlautin, Verso Nord
bookshighway.blogspot.com/2013/12/willy-vlautin_8393.html

 


L'intervista con Willy Vlautin

- a cura di Marco Denti -

Mite nei modi, deciso nelle parole, gentile nei confronti della vita come della scrittura, Willy Vlautin si sta rivelando uno dei più promettenti scrittori americani degli ultimi anni. Nel corso della presentazione di The Free (Jimenez Edizioni) nella Libreria Giufà, un accogliente avamposto culturale nel quartiere di San Lorenzo a Roma, abbiamo avuto modo di approfondire molti dettagli legati alla sua scrittura, da Raymond Carver a un’idea di America, e delle sue recenti scelte, la fine dei Richmond Fontaine e l’inizio dei Delines, prima che, tornato a imbracciare la fedele Martin, ci regalasse due struggenti versioni unplugged di Colfax Avenue e Don’t Skip Out On Me.

Sapevamo della tua predisposizione alla scrittura e alla creazione di interi scenari già dalle canzoni dei Richmond Fontaine, ma la tua evoluzione come scrittore, soprattutto con The Free e Io sarò qualcuno, ci ha sorpresi.

Vivevo per i film, cercavo il padre che non avevo o la fidanzata che non trovavo e quando ho cominciato a capire che non li avrei trovati lì, mi sono dedicato a scrivere le mie storie. Avevo diciotto anni, ero un ragazzo solitario e vivevo in un mondo di film, libri, dischi, che poi sono ciò che ci salva, ancora oggi. Amavo le ballate tristi, sai quelle canzoni che, come diceva Willie Nelson, nascono perché sei sposato alla persona sbagliata. All’epoca tra i miei maggiori punti di riferimento c’era Tom Waits, e anche quando suonavo nei gruppi punk tornavo a casa e, di nascosto, scrivevo quelle canzoni malinconiche, e non mi sentivo più solo.

Come erano vissute nella tua famiglia le tue passioni?

Non bene. La mia era una famiglia molto conservatrice, non hanno mai capito del tutto cosa amavo, non comprendevano il dedicarsi alla musica o alla lettura. Mia madre, che in altri modi è stata molto affettuosa con me, seguiva i programmi televisivi e radiofonici reazionari ed era sempre più coinvolta, per cui è stato spontaneo andarmene di casa molto presto, e del resto lo ha fatto anche mio fratello, che oggi è un uomo d’affari.

Quello di partire e di andarsene è un tratto comune a tutti i tuoi romanzi, come se la strada e il deserto fossero gli ultimi spazi liberi rimasti.

Beh, nel deserto ci sono nato e sono cresciuto, quindi suppongo sia inevitabile che sia filtrato nelle canzoni dei Richmond Fontaine così come nelle mie storie. È stato molto spontaneo. La strada perché gli americani pensano sempre che cambiando città migliori, ma non sempre è così, puoi anche cambiarti di abito ma dentro rimani sempre lo stesso sbandato.

Sei sempre piuttosto impietoso, con i tuoi personaggi, che devono sopportare vite complicate e durissime, in particolare in The Free. Non hai mai avuto la tentazione di trovargli una via d’uscita, un colpo di fortuna, una vincita alla lotteria?

Credo che i miei personaggi debbano trovare da soli la forza di andare, di provare a essere migliori. Sì, certo, in The Free, Freddie deve fare due lavori per far fronte alle spese sanitarie della figlia, e infine si dedica a un’attività illegale per poter fare un po’ di soldi. Pauline ha una padre malato di mente ed è un po’ il centro delle attenzioni perché... Beh, mi sono sempre piaciute le infermiere!

Sarà anche perché nella vita di tutti i giorni, Pauline è l’emblema di una volontà di riscatto, che era anche un tema dominante in Io sarò qualcuno.

Sì, può darsi anche perché dal mio punto di vista The Free si è evoluto in Io sarò qualcuno, e c’è senza dubbio una sorta di continuità, ma The Free è nato con il preciso scopo di contestare la guerra. Leroy Kervin è un ragazzo che va in Iraq ma non sa perché, così come non lo sa sua madre o la sua ragazza. Riesce a tornare tutto intero, ma i danni cerebrali sono tali gli fanno perdere tutto. I pensieri oscuri che lo assillano mentre è in coma in un letto di ospedale sono il riflesso del clima che viviamo in America ed è per questo che considero The Free un po’ il mio discorso sullo stato dell’unione del 2014.

Dovendo aggiornare la tua percezione, come la descriveresti, oggi?

Non che sia cambiato molto. Credo ci sia un’idea distorta dell’identità nell’America odierna. Trump non è la causa, è l’effetto di una percezione distorta. La gente della working class lo vota, persino contro i propri interessi, soltanto perché in lui vede un personaggio televisivo ricco e famoso, e vorrebbe diventare come lui, e invece si ritrova a non avere nemmeno i soldi per un’assicurazione sanitaria o per la scuola. E si ritrovano i figli a combattere in guerre senza senso.

Questa tua attitudine alla realtà, che si riflette nei tuoi personaggi, non può non ricordare Raymond Carver.

Certo, quando ho letto Raymond Carver per la prima volta ho capito che si poteva scrivere della working class, non era necessario diventare un brillante uomo d’affari o una spia, ma che potevo scrivere di ciò che avevo vissuto. I fallimenti dei suoi personaggi li conoscevo così bene perché li avevo visti in prima persona, nella realtà, ma non avevo mai immaginato che si potesse scriverne. Lui, e ancora di più John Steinbeck, sono stati il motivo per cui ho cominciato a scrivere.

Eppure una frase di The Free, quando dici che “forse la gente si consuma, semplicemente” mi ha ricordato un verso di Man In The Long Black Coat, quando Dylan canta “la le persone non vivono o muoiono, le persone galleggiano soltanto”.

Non saprei, mentre scrivevo The Free l’ho ascoltato spesso ma è difficile dire come mi abbia influenzato, nello specifico. In generale, direi che è impossibile non essere influenzati da Dylan perché è nell’aria, e così direi anche per i Beatles, i Rolling Stones, i Clash, e la Band. E poi quando ho sentito Dylan cantare mi sono rincuorato perché per uno con una voce limitata come me si aprivano orizzonti imprevedibili.

Per tua stessa ammissione, hai sempre avuto un rapporto complicato con la tua voce.

È vero, ho sempre fatto molta fatica a sopportarla. I Delines sono nati proprio per quello. Volevo continuare a scrivere le mie ballate, senza l’incombenza di cantarle. Non a caso, il mio album preferito dei Richmond Fontaine è Don’t Skip Out On Me, dove non ho dovuto cantare.

Quindi, ne deduciamo che i Richmond Fontaine siano un’esperienza finita.

Sì, li ho solo richiamati chiedendogli se riuscivamo a incidere un ultimo album prima di lasciarci, e così è stato con Don’t Skip Out On Me. Abbiamo deciso di comune accordo e siamo rimasti molto amici, ma ormai eravamo così stanchi che nessuno di noi aveva la forza nemmeno di lasciare il gruppo. Per più di vent’anni abbiamo inciso dischi e ce la siamo goduta, ma poi ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di chiudere, se non altro nel nostro momento migliore, almeno dal punto di vista artistico. E comunque devo dire che se non fosse per i Richmond Fontaine e per i romanzi, oggi non sarei quello che sono.

Resta il fatto che mantenere una rock’n’roll band e scrivere un romanzo sono due attività ben distanti.

Sì, è vero, ed è il motivo, per esempio, per cui non riesco a scrivere quando sono in tour, perché serve una concentrazione che quando sei in viaggio non riesco ad avere, anche perché tra scrivere le canzoni e un romanzo per me c’è una grossa differenza. Un romanzo mi porta via un sacco di tempo, soprattutto perché lo scrivo e lo riscrivo più volte, a volte rielaborarlo mi occupa un anno intero. È qualcosa che ti coinvolge in modo assoluto anche perché quando scrivi non sei mai solo, hai sempre una bella compagnia. Mentre lavoravo a The Free vivevo con Freddie e Pauline, così come scrivendo La ballata di Charley Thompson ero con lui e con Lean On Pete, il suo cavallo.

So che è sempre indiscreto, ma puoi dirci a cosa stai lavorando?

Sto scrivendo di una famiglia che vive nell’Oregon, una famiglia con molti problemi, ma, chissà, magari alla fine vinceranno la lotteria.


    


 


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