Playin' in The Band

Robbie Robertson, Testimony
[Jimenez edizioni, 590 pp.]

di Marco Denti

All’indomani della fine della guerra di secessione, Walt Whitman scriveva che “grandi come sono, dunque, e destinati a essere più grandi nel futuro, gli Stati Uniti non costituiscono altro che una serie di passi ulteriori nell’eterno processo del pensiero creativo”. Quell’auspicio poetico nel corso di più di due secoli ha trovato molte risposte, alcune all’altezza, altre decisamente no, ma è proprio lo stesso afflato che distingue la moltitudine di visioni americane collezionate da Robbie Robertson in Testimony che coincidono, per scelta e anche per dovere, con l’esistenza di quella singolare entità chiamata The Band. Allen Toussaint incastrato nella neve di Woodstock per arrangiare i fiati. Henry Miller che flirta con la moglie di Robbie Robertson. Rick Danko che sfascia una macchina dopo l’altra. Garth Hudson che inventa apparati sonori sempre più bizzarri. Richard Manuel che incanta con la sua voce e sparisce tra le ombre. Levon Helm che molla Dylan. Dylan, Robbie Robertson, Allen Ginsberg e Michael McClure insieme a San Francisco. Dylan, ovunque.

La vita è un carnevale, ma nella sua variopinta essenza, la storia della Band è stata quella di un tentativo di aprirsi uno spazio, di immaginare un mondo, di coltivare frontiere d’America filtrate attraverso la musica. Un’idea antica e moderna nello stesso tempo: l’alchimia della Band dipende molto dalla loro condizione, eccentrica rispetto all’epoca, uno stravagante equilibrio in un mondo nel caos. Quella sensibilità che cresce nella cultura dell’esilio sia per i canadesi, sia per Levon Helm, costretto a giocare in casa degli yankee. Gli spazi creati nascono dalla particolare condizione di non essere a casa, non proprio esuli, ma con gli stessi riflessi innati: stringersi attorno a un luogo delimitato, compattarsi nei legami, restare sempre all’erta. Molti degli stessi strumenti tradizionali (il violino, il mandolino, la fisarmonica) parevano conservati per l’evenienza di un’altra partenza. A differenza del clamore e degli effetti speciali dominanti, la Band si appropriava di uno stile austero, pastorale, quasi un ritorno alla terra, ai suoi rituali e ai suoi passaggi naturali. Non solo: la Band è stata una rock’n’roll band atipica, dove tutti suonavano tutto e dove la distribuzione egualitaria delle voci ha dissimulato l’assenza di un leader, di un frontman, allora ritenuto irrinunciabile.

Nella versione di Robbie Robertson valevano quanto una gang: “Erano quelli giusti. Erano i guerrieri della strada con cui potevamo affrontare la battaglia in ogni momento, in ogni luogo. Questa band era una vera band. Nessun anello debole. Ognuno faceva la sua parte e anche molto di più”. È uno spirito comunitario assecondato in modi diversi che attinge da un’idea primordiale di America, rimasta in gran parte inevasa e inesplorata. È il processo con cui la Band ha saputo vedere e leggere attraverso la filigrana dell’american music nel suo complesso, dalla più antica alla più moderna, da Muddy Waters a Jimi Hendrix, incontrati lungo quell’evoluzione che ha portato Greil Marcus a dire: “La loro musica ci diede la certezza che il paese era più ricco di quanto credevamo; che possedeva possibilità che solo noi stavamo cominciando a percepire”. Solo la Band e i Dead hanno saputo interpretare così a fondo le radici americane, e non soltanto dal punto di vista musicale.

C’è un coraggio vistoso nell’intenso lavorio della Band che in Testimony Robbie Robertson racconta con dovizia di particolari e il cui frutto sono sonorità che spaziano dalle trame rurali alle invenzioni più sofisticate, grazie alle tastiere di Garth Hudson e Richard Manuel e al ritmo di Levon Helm e Rick Danko. La polpa perfetta cresciuta attorno alla scoperta di Robbie Robertson di un nuovo approccio al songwriting: “Non dovevi muoverti per forza in linea retta, da A a B a C. Lo storytelling poteva essere un altro modo di ascoltare la musica, un altro modo di mettere insieme i personaggi e di cercare le cose meno prevedibili”. Avrà un impatto decisivo sulle canzoni da Music From the Big Pink in poi: nell’immaginazione di Robbie Robertson la Band è andata collimando con l’idea di un’orchestra incastrata in una rock’n’roll band, una visione che non era soltanto musicale, era una prospettiva sonora, fatta di un caleidoscopio di rumori, tutti incastrati nelle canzoni, in quelle fantastiche canzoni dove trovarono casa, tra esplorazioni nel futuro e nel passato, i frutti proibiti della cultura e della storia americana. La Band ha scavato un solco profondo nell’immaginario americano come non è riuscito a nessun altro. Scoprire come hanno fatto attraverso la personalissima ricostruzione di Robbie Robertson è un’esperienza e, non a caso, Chet Flippo li ha definiti “lo Smithsonian del rock’n’roll”. Bella definizione, ma non si possono archiviare come un reperto da museo. Aprirono un varco dentro un continente, da cui, prima o poi, sono passati tutti. Ci sono arrivati seguendo un percorso tortuoso che ebbe nel legame con Dylan il cardine inevitabile, non solo per la condivisione degli storici concerti, dei Basement Tapes e di Big Pink, ma per essersi accorti che era al centro di un’intera apocalisse.

In Testimony, Robbie Robertson dedica, come è naturale che sia, ampie dissertazioni sui movimenti di Dylan e nella più precisa dice: “Il suo mondo ruotava intorno all’arte, alla poesia e alla musica, e la scena era un turbinio che pareva spinto da un’energia atomica. Che fosse uptown o downtown, le strade traboccavano di musica. Mi sentivo come se avessi un posto in prima fila per assistere all’esplosione culturale che stava cambiando il mondo”. Da quella privilegiata posizione, ribadisce il concetto, a scanso di equivoci: “Bob (Dylan) stava per aprire una porta che in ogni caso andava spalancata. Per molti versi era come alle origini del rock’n’roll, due mondi diversi che venivano in contatto per la prima volta”. La complicità di Dylan contribuì a creare il mito di Woodstock, come se sulle soglie di un antico villaggio avessero fatto crescere una nuova comunità. Anche nella scelta del luogo, ben distante dai centri nevralgici dell’industria dello spettacolo e dalle lussuose potenzialità degli studi di registrazione, ricorda Robbie Robertson, “si trattava di rompere gli schemi, e più inaccettabile era l’ambiente, più mi sembrava adatto”. Cercata, scovata e aggiornata come un rifugio dalla tempesta, la vita a Big Pink si avvicinava di più all’ideale diffuso di Woodstock del celebrato festival che ne portava abusivamente il nome. Nello stesso tempo restava un luogo ancorato alle radici di un’America misteriosa, oscura e in gran parte “invisibile”. In un modo curioso, ma parecchio interessante, il leggendario critico Ralph Gleason li paragonava a James Agee. Di sicuro sapevano, Robbie Robertson più di tutti, che “ciascuno è intimamente connesso col fondo, con l’estremo margine del tempo”.

Una distinzione utile a collocare la Band che, come James Agee ebbe il suo fotografo di fiducia in Walker Evans, così trovò il complice adatto a definirne l’immagine in Elliott Landy. Ricorda con precisione Robbie Robertson: “Noi cinque eravamo per natura estremamente riservati, e Levon (Helm) in particolare non amava farsi fotografare. Elliott (Landy) si disimpegnò abilmente entro questi confini rendendosi quasi invisibile. Girava con noi per Big Pink, e mi piaceva riguardare insieme a lui le vecchie foto degli inizi del secolo. La cruda naturalezza delle sue foto era in qualche modo connessa alla musica che stavamo facendo”. Non si può distinguere l’epopea della Band dalle fotografie di Elliott Landy: dalle sequenze nello scantinato di Big Pink alla Band allineata, come prigionieri o fuorilegge in attesa di sentenza. Di giudizi ne sono arrivati parecchi, ma la Band resta come una specie di sogno ad occhi aperti che ha interpretato nel miglior modo possibile l’utopia del Woodstock Dream, come l’ha chiamato Elliott Landy nel suo splendido libro fotografico. Lo stesso Elliott Landy raccontava: “Se non avessi amato quella musica non avrei potuto fotografarla. Il fascino dei musicisti di quegli anni consisteva principalmente nel loro modo di suonare che attingeva ispirazione dagli angoli più nascosti, profondi, intimi e poetici della loro anima”. L’immagine dimessa e antica era in contrasto con gli eccessi dell’epoca che si nutrivano di ben altri contrasti, luminarie e voli pindarici. Anche lì, delimitarono un confine, e si scelsero un destino.

Scriveva Greil Marcus nel capitolo che gli ha dedicato in Mystery Train: “C’erano eroi ed eroine dell’era appena finita con solo uno o due anni da vivere; alcuni degli eroi della politica erano già stati uccisi. Eravamo andati troppo lontano, senza raggiungere nulla. Con Bob Dylan, The Band aveva visto dal di dentro molto di questo mondo, lo aveva visto quando stava nascendo, addirittura aiutato a divenire; ma vi passarono attraverso, sino a giungere in un posto che si costruirono da soli. Ne uscirono, in modo molto cosciente, come un’alternativa”. È vero, così come lo cantava Todd Snider in My Generation (Part 2) all’epoca del suo esordio Songs For The Daily Planet: “Il mio vecchio diceva che la generazione di Woodstock aveva trovato un modo per costruire questa nazione, aprendo gli occhi e guardandosi attorno”. Hanno ancora un senso queste parole, ma il mondo di Woodstock si stava consumando rapidamente: Dylan se ne sarebbe andato (come ricordava nel primo volume delle sue Chronicles: “Woodstock era diventata un incubo, un luogo di caos”) e la Band, per una logica stringente, non avrebbe tardato. La coincidenza è relativa: le rispettive strade si stavano già separando e anche per loro era giunto il momento di prendere una decisione.

Nel vento soffiavano aliti minacciosi, così come li racconta Robbie Robertson in Testimony: “La Band era arrivata a un bivio. Una tale miscela di emozioni può condurre alla confusione, e la confusione può portare all’autodistruzione. La sensazione era che non potevamo rompere qualcos’altro, avremmo rotto noi stessi. Nessuno di noi intendeva distruggere una cosa che amavamo, ma non sapevamo come fare. E non sapevamo dirci addio”. È proprio alla fine, nella celebrazione di The Last Waltz che la Band arriva a definire un’idea formidabile di America, quella che da Walt Whitman arriva ad Allen Ginsberg, attraverso un carattere epico del linguaggio, così come nella musica, votata a delineare paesaggi immaginari (e, nel villaggio globale, non c’è un paesaggio più immaginario dell’America stessa). In questo il rapporto con il cinema, che in Testimony scopriamo assiduo, deve aver avuto un ruolo non relativo nella gestazione che ha portato a The Last Waltz, al di là della collaborazione con Martin Scorsese. The Last Waltz è una rappresentazione della vita di una rock’n’roll band (speciale) dalla strada, che ormai era diventata “zona pericolosa”, al teatro, un lungo addio che più volte è stato interpretato come il saluto a un’epoca irripetibile, e non solo per la Band in sé.

La celebrazione nella cornice del palcoscenico diventa a sua volta un luogo della mente dove trovare non l’America “profonda” (ma quanto deve andare a fondo?), ma un’America ideale. Un trionfo e una sconfitta: la Band non ha lasciato nulla in sospeso, ha chiuso i conti e tirato giù il sipario. In molti hanno voluto vederci la fine di un’intesa stagione all’inseguimento della felicità e della libertà, e forse c’è del vero, come conclude Robbie Robertson in Testimony: “Eravamo tutti preparati a un’apocalisse, a una rivolta, a un cambio della guardia. Gli Stati Uniti, la Russia e la Cina stavano tutti testando le armi nucleari. Un senso di distruzione incombeva sopra le nostre teste. Il punk e l’hip hop voleva dare alla musica e alla cultura un bello schiaffo in faccia. Sembrava che ognuno volesse rompere qualcosa”. Un nuovo mondo avanzava e, come consumati attori teatrali, gli uomini della Band fecero un passo indietro. Un gesto nobile, e poi, non si sono persi niente.


La recensione dal blog di BooksHighway:
bookshighway.blogspot.com/2019/12/robbie-robertson.html


    


 


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