La ballata di Poncho e Lefty

Tyler Keevil, Poncho e Lefty
[Jimenez edizioni, 352 pp.]

di Marco Denti

Più che alla canzone di Townes Van Zandt, da cui i fratelli Harding, Timothy e Jake, prendono i soprannomi, il romanzo del canadese Tyler Keevil deve la sua naturale struttura ai versi di due brani di Springsteen, Highway Patrolman e Atlantic City e, per inciso, a tutta l’atmosfera di Nebraska. La prima, citata in epigrafe, è più che sufficiente a introdurre e a illustrare la condizione della famiglia Harding che ha vissuto sempre un po’ ai margini di Vancouver, una città tra Canada e Stati Uniti sospesa tra terra e mare, con il cemento e l’acciaio che sfidano la wilderness. Gli Harding provano a condurre una vita onesta, ma è difficile: con un padre scomparso ben presto e una madre non del tutto allineata, Tim e Jake, gli equivalenti di Joe e Frankie in Highway Patrolman, vengono cresciuti dalla sorella Sandy, pronta a trasferirsi a Parigi verso un futuro radioso da ballerina.

Il quadro familiare, nonostante le intemperanze di Jake, che ha una sua peculiare vocazione nell’andare a caccia di guai (trascinando con sé il fratello, naturalmente) regge fin quando Sandy non viene uccisa in un incidente. Da lì in una il susseguirsi degli eventi porteranno Jake in carcere, poi a essere debitore verso un gang di delinquenti che gli chiederanno di rubare un cavallo, Shenzao. Tyler Keevil ci mette un po’ a lasciar affiorare la trama di Poncho e Lefty intercalando spesso il fantasma di Sandy e le ombre del passato che inseguono i due fratelli, ma, nodo dopo nodo il racconto si intreccia in una rete che cattura il lettore e non lo molla più. Inevitabilmente, Jake chiederà aiuto a Tim, che nel frattempo aveva trovato un lavoro su un peschereccio, duro ma dignitoso, e si ritrova combattuto di fronte all’appello del fratello, che infine deciderà di assecondarlo perché “è sempre così. Difficilmente ci comportiamo in modo ragionevole o razionale, specialmente quando c’è di mezzo l’amore, e la famiglia”.

La frase annuncia e nello stesso tempo lascia in sospeso molto di quello che succederà dopo perché Jake e Tim, dovendo portare il cavallo oltre la frontiera, negli Stati Uniti, s’imbarcano in un’odissea picaresca e tragicomica. Tra l’altro riusciranno a caricarlo a bordo della barca su cui lavorava Tim, sfidando una tempesta e un addio al nubilato (in una delle scene più esilaranti del romanzo). Il viaggio ha qualcosa di epico perché oltre alla frontiera geografica, Jake e Tim dovranno superare il confine che li divide con una caparbietà che, in effetti, riesce a portarli molto lontano. Dove arriveranno va scoperto leggendo Poncho e Lefty perché i fratelli Harding impareranno, sul mare, sulla strada e nella lotta per la sopravvivenza, che il loro legame è l’unica possibilità che hanno. Questo, al di là dell’inevitabile scontro con la gang che li segue, vale soprattutto quando dovranno affrontare anche Maria, una ex di Jake, e la figlia Samantha. In una delle rare pause delle traversie di Poncho e Lefty balleranno tutti insieme sulle note di Atlantic City, di cui è inevitabile ricordare quel verso che dice “qui ci sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte sbagliata”.

Difficile immaginare che Tyler Keevil non ci abbia pensato, perché non è finita lì, e quel momento incide parecchio sull’evoluzione conclusiva della storia che è prodiga di colpi di scena. Tyler Keevil, un novello James Crumley che predilige le sfumature umane a quelle delle armi, conduce Poncho e Lefty senza esitazioni con il ritmo di una ballata che racconta di fughe e addii, conquiste e dolori, burrasche e tormente dando una nuova e imprevista dignità ai ladri di cavalli, uno dei mestieri più pericolosi e dannati di tutto il West. E, come succede spesso da quelle parti, i fratelli Harding saranno stati dei fuorilegge, sì, ma sono ancora dalla parte giusta. Consigliatissimo.


    

Townes van Zandt, Pancho and Lefty (Heartworn Highways, 1975)

 

Pancho & Lefty, storia di una canzone

di Fabio Cerbone

"Come tutte le canzoni di Jake, suonava ruvida e ferita, come se le parole venissero fuori dalla sua gola lungo un cavo arruginito. Qualcosa di doloroso da tirare fuori, ma che sarebbe stato ancora più doloroso tenere dentro, se mi spiego". (Tyler Keevil, Poncho e Lefty)


C’è modo e modo di essere “fuorilegge”, lo potrebbero confermare anche i fratelli Tim e Jake Harding, protagonisti del romanzo di Tyler Keevil: si può indossare una maschera, interpretare un ruolo, come gli eroi sullo schermo del cinema, e si può invece piegarsi al destino della propria condizione umana, alle ombre che ti lacerano dentro (e magari scriverci una canzone, come fa Jake con la sua inseparabile chitarra). È una differenza non da poco, perché Dylan cantava: “Magari assomiglio a Robert Ford, però mi sento Jesse James” (Outlaw Blues). E quel sentirsi come un bandito diventa una sensazione che comincia a consumarti e al tempo stesso ti compiaci di una scelta che sai ti condurrà prima o poi alla distruzione, o quanto meno a pagarne il prezzo. È un po’ anche la storia della vita di Townes Van Zandt, di quel texano dalla pelle dura e dal carattere fragile, che occupava un posto defilato in mezzo alla nuova generazione di songwriter si stava affacciando alla ribalta dell’altra Nashville. Quelle sue canzoni, così introspettive e combattute, guardavano a un pubblico diverso e di tutto il gran chiacchiericcio sui cosiddetti outlaw e il country ribelle che spirava dal Texas, Townes non sapeva esattamente che farsene.

Era sempre fuori posto Van Zandt: non assomigliava a nessuno, aveva l’aria di un hippie trasandato, che vestiva gli insoliti panni di un cowboy più per caso che per decisione consapevole. Le canzoni, a volte spietate e di un’intensità insostenibile nelle parole, parevano figlie di un’America che si affacciava sull’orlo del precipizio. Anche Pancho and Lefty - qui cambia una lettera dal romanzo di Keevil ma la complicità nel cacciarsi nei guai è la stessa - apparteneva a quella categoria, metafora di sconfitta e di tragica amicizia, sulle ali di una libertà anarchica e individualista da vecchia frontiera americana. Sarebbe diventata la carta d’identità di Townes Van Zandt, una “signature song” fortunata in una carriera oscura e complicata, di quelle celebrate con il senno di poi, come a restituire tutto il maltolto e gli onori che Townes non aveva ricevuto in vita. Suo malgrado diventò anche uno dei passaggi simbolici del sentimento outlaw di un’epoca: incisa nel 1972 per l’album The Late Great Townes Van Zandt (beffardo fin dal titolo), uno dei tanti diamanti grezzi passati inosservati al tempo dell’uscita, la ballata aveva tutte le caratteristiche per conquistare un comune sentire. Lo spirito dei tempi era quello: Pancho e Lefty si muovevano sullo scenario di un’esistenza romantica, senza barriere o leggi a frenarne l’impeto, erano due figure che emergevano da un romanzo di Larry McMurtry o da un film di Sam Peckinpah, una vicenda di amicizia che agognava avventura, libertà, ma anche fuga e assenza di riparo, situazioni che avrebbero indurito la pelle come il ferro e trasformato il respiro in una bruciante fiamma di cherosene.

Pancho e Lefty scelgono la strada e la polvere e rinnegano la casa, gli affetti, l’amore, ma Van Zandt, e qui sta la bellezza della sua poetica, non indugia in dettagli rocamboleschi e luoghi comuni da spicciola epica western. La sua scrittura sembra piuttosto figlia di quello stesso crepuscolo che stava invandeno la nuova Hollywood cinematografica, mettendo in discussione i dettami della tradizione: Pancho & Lefty non sonno invincibili, semmai la vita li fiacca, in una lotta perenne tra guardie e ladri, dove anche gli uomini di legge alla fine saranno accomunati da un codice etico di rispetto reciproco. I federali gli danno la caccia, ma ne temono in qualche modo la morte, perché sarebbe un po’ anche la loro stessa morte. È una ballata, Pancho & Lefty, assai più complessa e ricca di insidie di quello che potrebbe apparire in superficie, contiene una quantità di luoghi oscuri e di “non detto”, come tutto ciò che agitava la personalità molteplice dello stesso Townes Van Zandt.

Willie Nelson Merle Haggard, Pancho and Lefty (1983) Emmylou Harris, Pancho and Lefty (1977)

La prima ad accorgersi delle enormi potenzialità e del pathos della canzone fu una donna, Emmylou Harris: questione di sensibilità e forse di una predilezione per gli irregolari, tanto la Harris aveva avuto a che fare con i demoni di un altro infelice ribelle, Gram Parsons. Pancho and Lefty entrò nella scaletta di Luxury Liner, fortunato lp del 1977 che sfruttava il momento d’oro dell’artista, ormai assurta a nuova regina del country rock, capace di “saccheggiare” con la propria interpretazione vecchi e nuovi classici del genere. Tuttavia, ci sarebbero voluti altri cinque anni prima che Pancho and Lefty ottenesse davvero un riconoscimento popolare, entrando nell’immaginazione più addomesticata e accettabile della Nashville country, grazie alla versione che ne diedero i vecchi compari Willie Nelson e Merle Haggard, pure loro in fondo assediati dall’ingombrante etichetta di outlaw. Ironico e assurdo, se ci pensate, eppure in termini commerciali e di ricezione del grande pubblico, è proprio la loro interpretazione quella più nota: accompagnata al tempo da un video in costume, con una convenzionale sceneggiatura western a fare da sfondo e lo stesso Van Zandt chiamato come ospite nel ruolo di un federale messicano, la canzone nel 1983 avrebbe raggiunto la vetta dei singoli più venduti.

Un altro decennio e un rinnovato approccio alla tradizione, quello attuato dalla cosiddetta scena alternative country, avrebbe riscoperto il ruolo di una figura tormentata come quella di Van Zandt, ideale per esprimere il punto di rottura, di rovesciamento dei canoni della canzone più tradizionale: Townes, scomparso all’alba del 1997, non ha fatto in tempo a goderne appieno i frutti, oggi ormai diventato un’icona, anche al di fuori degli ambiti strettamente country folk, ma nel passaggio di testimone era inevitabile che uno dei suoi figli prediletti, e come lui incline alle ombre dell’esistenza, ne portasse avanti la lezione. È di Steve Earle, infatti, l’ultima significativa ripresa di Pancho and Lefty, che il cantautore texano incluse nell’album tributo del 2009, Townes, fortemente voluto per salutare il suo maestro. Siamo sicuri però che altre interpretazioni, già adesso, si faranno strada, come a sancire una vita autonoma dal loro autore e dalla canzone stessa di Pancho e Lefty: i due fuorilegge continuano a cercarsi e a vagare, là fuori, lungo il confine con il Messico.

 

    

Steve Earle, Pancho and Lefty (2012)

 


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