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Jennifer Pashley,
Il caravan
[Carbonio Editore, pp.330]

- di Fabio Cerbone -

È una voce disturbante eppure piena di compassione quella che emerge dalle pagine di Jennifer Pashley, scrittrice di Syracuse, New York che sembra ribadire la presenza di una nuova generazione di donne che colgono da un'altra angolazione il mito americano. Il caravan ne illumina diversi aspetti: la strada e quel senso di fuga e riparo che può offrire; i non luoghi da attraversare all'infinito; la desolazione della provincia profonda tra squallidi motel, villaggi di roulotte e supermercati aperti a tutte le ore; la violenza innata, quasi atavica, della società e soprattutto della famiglia, con i suoi legami di sangue che possono assumere forme perverse. Ma proprio quando ti aspetti un regolare svolgimento dei fatti (e della ricerca dell'assassino, che qui sembra essere piuttosto il motore psicologico del viaggio), inseguendo i dettami di quello che potremmo solo superficialmente definire come un thriller on the road, Jennifer Pashley scardina le certezze del romanzo e dei personaggi, maneggia la materia oscura della storia che racconta per indagare rapporti umani ben più profondi, attraverso una scrittura che si rivela al tempo stesso asciutta e ricca di sentimenti e confessioni.

Il caravan
è la vicenda di Rayelle e Khaki, due cugine, anzi, qualcosa di più, certamente due donne ferite, disastrate, alla deriva, che cercano in modi (assai) diversi di raggiungere il loro riparo. E forse solo una voce femminile, quella di Jennifer Pashley, poteva raccontarle in modo così schietto, persino crudele in alcuni passaggi. Sono le parole di Rayelle e Khaki ad alternarsi nei capitoli, in maniera concentrica fino all'inevitabile collisione (e ritrovamento), mentre gli uomini restano spesso sullo sfondo, ombre un po' sfuggenti, oppure emergono, come la sola figura di Couper Gale, giornalista, compagno di viaggio e di indagine di Rayelle, ma senza diventare mai un'eroe o peggio uno sterotipato principe azzurro. Ecco dove Il caravan si fa più singolare e allontana i luoghi comuni del genere: Jennifer Pashley immagina donne vittime e carnefici al tempo stesso, tenere e crudeli, in uno scambio di ruoli che trova in Rayelle e Khaki un continuo contrasto di figure, così vicine e così lontane, sullo sfondo di un'America descritta affondando il coltello, perennemente sull'orlo del precipizio umano.

Con le parole dirette di Jennifer Pashley, nell'intervista che segue, abbiamo cercato di capire la genesi del romanzo e l'idea di realtà americana che contiene... Con un inevitabile richiamo alla sua colonna sonora, nemmeno così immaginaria (visti i riferimenti presenti nel romanzo), tanto che Jennifer Pashley in persona ci ha dedicato una playlist ad hoc: la trovate al termine dell'intervista.

La recensione dal blog di BooksHighway (di Marco Denti)
bookshighway.blogspot.com/2020/09/jennifer-pashley.html


Il caravan, una playlist musicale ispirata dalla lettura del libro
(in collaborazione con Jennifer Pashley)

    

 

L'intervista con Jennifer Pashley

- a cura di Marco Denti -

Prima di tutto, cosa ti ispirato la storia che racconti con Il caravan?

Il caravan nasce in origine dalla storia di due sorelle che sono alla ricerca l’una dell’altra, ed era una romanzo on the road. Gli omicidi sono arrivati più tardi, nel corso degli eventi.

Leggendo Il caravan sembra che tutto dipenda dalla famiglia o dalla sua assenza. Cosa ne pensi?

Penso che molto dipenda dalla tua famiglia di origine. Ti indirizza verso chi sei quando sei giovane, e chi scegli di essere mentre maturi. È quella la differenza tra Couper e Rayelle. Rayelle si sta ancora districando dalla sua famiglia. Couper si è già allontanato. E Khaki si è completamente tagliata fuori.

Khaki è una serial killer decisamente singolare. A differenza dei suoi “colleghi”, la sua missione è speciale. Puoi raccontarci qualcosa di più di lei?

Khaki emerge fuori dal suo specifico ambiente. Per lei poteva essere più prevedibile, e anche soddisfacente, uccidere gli uomini, dato che gli uomini sono quelli che l’hanno sempre ferita di più. Invece, cerca le donne che sono vulnerabili, che sono state preda di violenza e abusi. Quello che fa è una sorta di misericordia. Prende le donne e le ama, le cura come non sono mai state curate o amate prima, e poi le uccide, al culmine della loro euforia. È un tipo d’amore molto particolare.

Cosa ne pensa la tua famiglia di quello che scrivi?

La mia famiglia è disfunzionale, o è morta. Non leggono quello che scrivo.

Con Il caravan la strada è tutto ed è sempre un’opportunità, come se correre via fosse l’unica possibilità. Perché?

Nutro sempre un forte impulso a fuggire. Mia madre l’ha fatto due volte, e allora ho dovuto soffocare quell’istinto dentro di me. In particolare in America, penso che la strada aperta sia percepita come la libertà. Si può andare ovunque. Si può attraversare il paese e diventare una persona diversa.

La desolazione del paesaggio sembra essere una componente fondamentale, e di sicuro pesa sulle vite dei personaggi. Quanto ti sei ispirata alla realtà americana?

È molto vicino alla realtà americana. Un sacco dell’America rurale è sia bella che desolata. Siamo votati alle rovine industriali. Niente qui è antico. Invece, abbiamo abbandonato le fabbriche IBM, o le cartiere. C’è una vera solitudine vuota nel paesaggio americano che volevo catturare con Il caravan, attraverso strade più piccole, highway a due corsie invece delle autostrade, vie secondarie che attraversano piccole città.

A parte Couper, tutte le figure maschili sono sfuggenti. Quella di Khaki e Rayelle è una ribellione contro la violenza o l’assenza maschile, o entrambe?

Penso davvero che sia solo un fatto molto comune. La famiglia nucleare americana è in gran parte un mito. Molte volte, il padre è assente, o distante, o è lì, ma è violento. C’è un concetto separato di famiglia in America che è più un matriarcato, ma è come se fosse un segreto. È come in Fight Club, quando Chuck Palahniuk descrive una generazione di uomini cresciuti da donne, ed è lì che mi viene da dire che l’idea dell’uomo americano è strana. Non sono sicuro che esista davvero.

Hai svolto delle ricerche particolari mentre scrivevi il libro?

Non ho fatto molte ricerche mentre scrivevo Il caravan. A volte guardo solo le cose come vanno, per ottenere i dettagli giusti. La maggior parte sono particolari di crimini.

C’è stato qualche libro che ti aiutato a comprendere meglio la tua scrittura?

I libri che mi hanno fatto pensare diversamente alla fiction sono proprio lavori di narrativa, soprattutto i romanzi di Toni Morrison. Amo il modo in cui gioca con il tempo lineare, con la possibilità di raccontare una storia completamente fuori luogo, come un puzzle. Ammiro anche la sua idea che, a volte, qualcosa di completamente magico può accadere nel bel mezzo di un romanzo altrimenti realistico.

Il caravan è il tuo primo romanzo. Pensi che la sua pubblicazione cambierà la tua scrittura?

Non lo so. Per pubblicare Il caravan c’è voluto un sacco di tempo. L’avevo scritto e l’avevo affidato a un agente, poi mio padre è morto. Mi ha impedito di tornarci a lavorare per un po’, e ho scritto altre cose prima di ricominciare a pensarci. Quando l’ho fatto finalmente, era cambiato, ed era diventato qualcosa che sentivo elegiaco. Consolidava la sensazione di essere un romanzo on the road, di essere un romanzo sulla ricerca di qualcosa che si era perso.

Cosa pensi renda grande una storia?

Si dice spesso che le decisioni sbagliate generano buone storie. Penso che solo in parte sia vero. Penso che la chiave per una buona storia sia il desiderio. Un desiderio di qualcosa, qualunque cosa sia in ogni storia: un desiderio di connessione, di fuga, di guarigione. Questa è la chiave che penso un lettore stia cercando quando si immedesima in una storia.

Quali sono le sfide più difficili che hai affrontato scrivendo Il caravan?

Ho saputo per molto tempo come doveva essere il romanzo, ma non sapevo cosa significasse in termini di trama. Mi ci è voluto parecchio per tracciare gli eventi del romanzo, perché tutto sembrava provenire da un remoto luogo di nostalgia. La trama mi si è rivelata soltanto più avanti. 

Lavorandoci, cosa hai scoperto che ti ha stupito?

Quanto sia difficile fisicamente fare a pezzi un corpo. Questa è una delle cose che ho studiato. E volevo chiarire che Khaki è piuttosto minuta, ma che è molto forte, e che la sua forza è alimentata da ciò che lei vede come la sua missione.

Cosa pensi succeda ai personaggi, una volta finito Il caravan? Ci sarà un sequel?

Non escludo, prossimamente, una storia che esplori il futuro di Khaki. Penso che sarebbe interessante conoscere chi diventa, man mano che cresce.

Last but not least, Bruce Springsteen è un punto riferimento che Il caravan richiama, sia in modo implicito che esplicito. Da cosa dipende? Quali altri elementi musicali hanno influenzato la scrittura del romanzo?

Sono così felice che tu l’abbia colto! Naturalmente, è un riferimento esplicito nella dedica, che è una citazione da Born to Run. Quindi, ovviamente, Born to Run, ma anche Thunder Road. Penso che entrambe le canzoni siano come dei piccoli romanzi. Sono stata anche influenzata tanto dalla musica quanto dalle parole di alcune canzoni di Ryan Adams, come When Will You Come Back Back Home e Cherry Lane, che ha quel verso, “It was written in a language that was meant to fuck you up up”. Al di là di questo stile (che è simile), ho ascoltato molto Tori Amos e PJ Harvey, perché sentivo specificamente come i loro mondi fossero pieni di donne complicate, un mondo di ragazze che potrebbero compiere danni, o spingere verso qualche tipo di svolta radicale. Amavo quella differenza, la differenza tra il mondo degli uomini che raccontano storie sulle donne e quello delle donne che raccontano storie su se stesse.


 


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