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Karl Marlantes
La vita è un fiume (poco) tranquillo

- a cura di Marco Denti -

Vi combatteremo dalle montagne
e vi combatteremo nelle strade
e vi combatteremo nelle valli
non potete prendere ciò che non è vostro
vi combatteremo contro i vostri scagnozzi e vostri avvocati
e combatteremo i vostri Pinkerton
e combatteremo i vostri membri del Congresso corrotti
non potete prendere ciò che non è vostro.

(Cracker, Torches and Pitchforks)

Karl Marlantes
Deep River

[Solferino, pp.800]

In tempi in cui gli scrittori sembrano guardare la luna intontiti dalle proprie frustrazioni, Karl Marlantes sfodera un romanzo impetuoso, potente, generoso che non ha paura di confrontarsi con il conflitto, perché senza quello la letteratura è qualcos’altro, diciamo intrattenimento, nel migliore dei casi. Deep River racconta la nascita di una nazione attraverso le ambizioni, le rivoluzioni, le contraddizioni, i miti (il duro lavoro, la libertà, la giustizia) e la verità (lo sfruttamento dell’ambiente e delle persone). Più di tutti, quello appariscente della frontiera che, come scrivevano Nevis e Commager in Storia degli Stati Uniti, è estrema perché “più che una linea, rappresentò un processo sociale: incoraggiò l’iniziativa individuale, contribuì alla democrazia politica ed economica, rese più austeri i costumi, dissolse il conservatorismo e alimentò lo spirito di autonomia locale, congiunto al rispetto per l’autorità federale”. Rispetto all’analisi degli storici americani, che resta un valido punto di partenza, la realtà era ben più caotica e feroce. L’Ovest è una meta per la ricchezza e lo spazio infinito: c’è soltanto da prendere, attingendo dalle riserve naturali delle foreste e dell’oceano (poi toccherà al petrolio, ma questa è un’altra storia). Siamo all’inizio del ventesimo secolo e Karl Marlantes in Deep River riesce a rendere con grande attenzione il momento, dichiarando di aver “cercato di calare il romanzo in un contesto storico accurato”. Lo fa risalendo lungo il suo albero genealogico per attingere le storie di famiglie partite dalla Finlandia, un’origine che è indispensabile per comprendere la saga della famiglia Koski.

Evoca e illustra la vita degli immigrati finlandesi che, fuggendo dall’oppressione della Russia degli zar, si portarono dietro usi, costumi e tradizioni: la sauna (almeno una volta la settimana), il puukko (il coltello tradizionale che farà non pochi danni), una certa ritrosia e discrezione, e infine le mitologie che resistono tra i boscaioli e i pescatori (queste le principali attività). Il Kalevala, un poema epico nella lingua natia costituisce la rete su cui si appoggia la storia di Deep River. Per Karl Marlantes le leggende norrene sono anche una base narrativa, una struttura su cui ha ricalcato la spina dorsale del romanzo, che ha una forma classica, ma che si svolge in un tempo di transizione, verso l’era moderna, con tutti i cambiamenti immaginabili. Il substrato mitologico è un tessuto che lega i personaggi, ma gli scontri per le condizioni di lavoro e la lotta per la sopravvivenza sono i perni su cui ruotano in un modo o nell’altro tutte le vite attorno al Deep River.

Di famigliare, resta l’estrema povertà e la rigidità del clima della costa occidentale degli Stati Uniti, dove la congiunzione tra l’oceano e le foreste forma un paesaggio molto simile a quello scandinavo. La situazione però è diversa: la vastità del territorio, impervio e affascinante, riflette l’idea infinita e indefinita dell’America: spinto dall’avidità, dalla rapacità e dai debiti, lo sviluppo degli Stati Uniti è così rapido da travolgere tutto. Gli immigrati sono, di fatto, ancora dei pionieri, che si ritrovano a lottare “into the wild”, cioè a confronto con il clima, gli animali, le terre inesplorate e, ancora di più, con le feroci circostanze dettate dal mercato. Se è vero che “il fucile è il loro principale mezzo di sostentamento”, e già questo dice molto sul rapporto dell’America con le armi, bisogna aggiungere che le possibilità di lavoro sono altrettanto selvagge e proibitive. In quel frangente il legname è una delle materie prime più richieste e i boscaioli devono sostenere ritmi forsennati in situazioni pericolose: tagliare gli alberi alla velocità richiesta dagli imprenditori è rischioso, l’esecuzione è forzata ed è una sfida contro il tempo.

Finnish immigrant familym 1910.
Foto: University of Minnesota
Finnish workers' band Saima.
Foto: Migration Institute of Finland

Deep River appassiona con le descrizioni minuziose della vita quotidiana, a cui Karl Marlantes dedica un’intensa attenzione, tanto da costituire un tratto fondamentale della lettura. Stiamo parlando di un romanzo di ottocento pagine, certo, non una passeggiata, ma non c’è un momento in cui il flusso rallenti o si ingarbugli. Per quanto complesso e poderoso, il racconto è molto lineare e risulta magnetico proprio perché Karl Marlantes non si perde, così come è successo in Matterhorn, dove raccontava la guerra del Vietnam con una lucidità e una precisione condivisa con pochi altri (Tobias Wolff, Michael Herr e non tanti ancora). In Deep River il conflitto è altrettanto complesso perché è radicato nella formazione degli Stati Uniti, in orizzontale e in verticale, dalla destinazione degli immigrati che andranno a costituire un’intera nazione, alla costruzione di un’economia che Karl Marlantes sa ridurre ai minimi termini, riconducendola sempre alla sfera delle esperienze personali.

In questo magma, Aino è la figura principale: attorno a lei, attivista convinta e caparbia, si snodano le vicende di tutta la famiglia Koski. Con il suo passato e i suoi ideali si ritrova a combattere per migliorare i rapporti di lavoro e per una giustizia sociale, ma la sindacalizzazione in un paese come gli Stati Uniti, la terra dei sogni, delle speranze e delle promesse non mantenute, dovrà affrontare scontri e violenze inaudite.

Karl Marlantes, a differenza della sua protagonista, non affronta la questione da un punto di vista ideologico e non prova a spiegare come si viveva sulle sponde del Deep River, piuttosto suddivide il destino tra i protagonisti: chi riesce a coltivare il proprio angolo di terra, saldandosi a una comunità dalle prospettive limitate, ma dai contorni forti e precisi, chi si allinea alla dura vita dei boscaioli, chi parte per la guerra, chi si dedica al contrabbando. Ci sono segreti, sotterfugi, inganni e personaggi che si elevano, pur trafficando in modo torbido: per esempio, Louhi, una tenutaria che, per quanto con un ruolo ambiguo, ha un impatto non relativo nell’intrecciare i destini dei diversi personaggi della famiglia Koski. I legami sono tortuosi, il più delle volte dettati dalle necessità contingenti: la fede, la politica, il senso di villaggi arroccati in luoghi impervi, perdutamente belli e affascinanti, ma anche insidiosi, restano fragili.

Per raccontarli, a Karl Marlantes basta la giusta dose di romanticismo e la citazione (non casuale) di Upton Sinclair che, con La giungla, ha narrato la vita operaia nei macelli di Chicago, così come Deep River illustra quella dei boscaioli (e poi dei pescatori). Sono pagine dense, ma avvincenti e trascinanti: la saga diventa un grande romanzo che non ha né trucchi né effetti speciali, ma soltanto le storie delle vite, raccontate nel quadro di una visione molto convincente. È uno sguardo d’insieme che comprende i riflessi internazionali: la divisione tra bianchi e rossi continua in America, ma in una versione alternativa. Se in Finlandia era una resistenza nazionale contro l’occupazione feroce degli zar, negli Stati Uniti è una lotta diventare cittadini di una nazione dove nemmeno la polizia ti protegge, anzi. E gli scenari cambiano ancora con la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa e poi con il progresso tecnologico, con la costruzione delle ferrovie, l’arrivo delle prime automobili.

John McCutcheon, "Joe Hill’s Last Will" Billy Bragg, "There Is a Power in a Union"

Tutti elementi che ritornano puntuali lungo Deep River, come ingredienti inamovibili della storia americana, ma soprattutto portatori di altrettante svolte umane, dove il carattere classico del dramma diventa esplicito: amore, tradimento, vendetta, la ribellione per l’affermazione contro i soprusi del potere, e, al centro della questione, la sindacalizzazione per condizioni di lavoro migliori. La lotta dell’Industrial Workers of the World, ovvero degli wobblies, è un tratto costante in Deep River che Karl Marlantes ricostruisce seguendo le gesta di Aino fino a farla incontrare con Joe Hill. È una lunga storia dentro la storia, che Karl Marlantes incastra alla perfezione, assemblando particolari fiction e storici: Joe Hill è il famoso sindacalista e songwriter, cantato a sua volta in dozzine di canzoni. In Deep River ha un ruolo relativo nell’economia del romanzo, ma è importante per la collocazione di Aino. Karl Marlantes si inventa anche una fugace relazione, ma la presenza di Joe Hill oltre a incidere sul peso delle rivendicazioni sindacali perseguite da Aino e dai wobblies, apre uno sprazzo rispetto alla musica. Joe Hill componeva canzoni di lotta e di proteste, come The Rebel Girl, che ora ci piace pensare sia dedicata ad Aino, anche se “i versi erano arguti, ma le melodie le aveva rubate”, e con la citazione esplicita di una delle sue interpretazioni più famose, The Preacher And The Slave. Per inciso, per riscoprire Joe Hill e le sue canzoni vale la pena di segnalare l’intero disco che gli ha dedicato John McCutcheon, un songwriter con più di trenta album alle spalle, ovvero il bellissimo Joe Hill’s Last Will, nel 2015.

La confluenza della musica della tradizione popolare europea è, a sua volta, un elemento coagulante: le labor songs e le danze del sabato sera e della domenica sono l’unico svago, ma le canzoni sono onnipresenti nella vita degli immigrati, come un riferimento alla loro identità che si sono portati dietro e a cui non vogliono e non possono rinunciare, fino all’apparizione di Big John and the Jazz Syncopators, ovvero quando la musica comincia a prendere una forma inedita e un’altra organizzazione. Come ben sappiamo, si apre una nuova era, e Karl Marlantes non va oltre. Per comprendere fino in fondo la dimensione di Deep River, invece, conviene tornare a quello che scriveva alla fine di Matterhorn: “Nient’altro che ombre in movimento, su questo paesaggio di monti e vallate; ombre che muovendosi cambiano l’ordine delle cose lasciandole in realtà immutate. Solo le ombre possono cambiare”. Realistico, e radicale.


    

 

 


 


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