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Reverend Gary Davis
To beat the Devil: una chitarra tra paradiso e inferno

- a cura di Marco Denti -

Ian Zack
Il reverendo Gary Davis

[ShaKe edizioni, pp.360]

Per anni, la sua unica opportunità è stata la strada, e cantava: “A nessuno importa di me, perché sto nel buio e non posso vedere”. Eppure attorno al reverendo Gary Davis si è sviluppato tutto un popolo, come se fosse il catalizzatore di un tempo e di una dimensione storica e culturale. La ricostruzione di Ian Zack vede il reverendo Gary Davis proprio nel cuore di una galassia in cui ruotano gli allievi che pagavano cinque dollari per guardarlo suonare (Roy Book Binder, Rory Block, Woody Mann, Ry Cooder) e il movimento folk del Village tra gli anni cinquanta e sessanta con musicisti (Izzy Young, Eric Von Schmidt, Harry Chapin e, naturalmente, Bob Dylan) e musiciste (Maria Muldaur, Barbara Dane, Janis Ian, Elizabeth Cotten). Tanta attenzione perché, suonando la chitarra alla stregua di un pianoforte, ha espanso le possibilità dello strumento, come riportava Alex Shoumatoff: “Certe volte suonava solo con la mano sinistra, su e giù per il manico mentre schioccava le dita della destra o le sbatteva sulla cassa. Mugolando, urlando, guaendo”.

Sempre in bilico tra sacro (spiritual, gospel) e profano (folk, blues) il reverendo Gary Davis ha segnato a fondo la storia della musica del ventesimo secolo ed è anche insolito, da un punto di vista, perché come puntualizza Ian Zack, non ha mai fatto nulla per apparire o per emergere. Diceva a Stefan Grossman, il più assiduo tra i suoi discepoli: “Non serve a nulla offrirsi a qualcuno. Se ti vogliono, ti cercheranno. Puoi trovare un sacco di cuccioli, sai. Appartengono tutti allo stesso cane, ma quando ne guardi uno puoi capire quello che sarà dominante. Puoi scegliere quello. Puoi vedere in lui qualcosa che non vedi nel resto. Non vai tu a offrirti alla gente. Sono loro che faranno l’offerta”. Il suo modus operandi era tanto semplice quanto costante: “Canto canzoni cristiane, cerco di portare un po’ di luce nella mente delle persone su quel che dovremmo fare, come dovremmo vivere. Prima una canzone, poi un’altra”. La conferma viene da una testimonianza lirica di Harry Chapin che lo ritraeva così: “Il vecchio era lì davanti alla vetrina, con il bastone bianco appeso alla cintura. E piegava l’acciaio delle corde della sua chitarra, che sembrava dovesse fondersi. Era l’ultimo dei cantanti all’angolo della strada, facendo il suo dovere negli ultimi anni, la sua voce di gola era come il gracidio di un rospo, ma è lui che ha inventato il blues”.

Dopo una vita di una vita di sussidi e di precarietà, violenze e privazioni, dal quartiere di Hayti, Durham, North Carolina approda a New York finché, nel gennaio 1950, l’apparizione al memorial per Leadbelly, si rivela quasi un passaggio del testimone nel quale vengono coinvolti Sonny Terry & Brownie McGhee, Mississippi John Hurt, Son House, Bukka White, Skip James riscoperti e celebrati perché come diceva Dylan: “un po’ della loro vita ti restava attaccata”. Ian Zack ripercorre con scrupolo passaggio passaggio e se la sua storia si può condensare in una frase, (“Sono armato e canterò le mie canzoni”), ogni pagina è fitta di notizie, aneddoti e riferimenti, compresa l’evoluzione dell’industria discografica in quel periodo cruciale. Grazie al primo album di Peter, Paul & Mary, che porterà al successo If I Had My Way, il reverendo Gary Davis si ritrova in condizioni migliori e riesce ad abbandonare la strada. È quando “la canzone funziona”, ed è curioso che la svolta psichedelica, intorno al 1967, sia stata un colpo durissimo per tutti, mentre i Grateful Dead, attraverso Bob Weir, un altro allievo del reverendo, riprendevano le sue canzoni trasformandole, come è noto, in lunghe jam. Buon ultimo sarebbe arrivato Jackson Browne che credeva di avere imparato Cocaine da Dave Van Ronk. La canzone ha una storia lunghissima, ma l’elenco delle versioni seguite alla seminale rivisitazione del reverendo Gary Davis comprende Townes Van Zandt, Davey Graham, Ramblin’ Jack Elliott, Nick Drake, John Martyn, Richard Fariña, Hoyt Axton.

C’è solo l’imbarazzo della scelta e la sua non è soltanto una biografia, è tutto un milieu che prende forma, unico e irripetibile, dove la musica e la chitarra sono il centro dell’universo.

(dal blog di BooksHighway)


    


Harlem Street Singer

a cura di Fabio Cerbone

Blind Gary Davis
Harlem Street Singer

[Bluesville/ Prestige]

Tra i documenti più preziosi della riscoperta blues avvenuta all’alba degli anni Sessanta, sull’onda dell’entusiasmo artistico e intellettuale che avrebbe preso il nome di “folk revival”, Harlem Street Singer è l’album che contribuisce a rilanciare la seconda (e più remunerativa) parte della carriera di Reverend Gary Davis, detto anche Blind Gary Davis, come recita il nome sulla copertina di questa storica pubblicazione targata Bluesville. L’etichetta, nata un anno prima come divisione della famosa casa jazz della Prestige, è dedita a rimettere in circolazione i vecchi bluesmen emersi dalla memoria pre-bellica (nel catalogo anche Lightin’ Hopkins, Memphis Slim, Lonnie Johnson, Sonny Terry & Brownie McGhee), sfruttando un interesse crescente delle nuove generazioni verso questi linguaggi.

Frutto di una sola sessione di registrazione, avvenuta nell’agosto del 1960 presso i leggendari studi di Rudy Van Gelder (nome indissolubilmente legato al mito jazz della Blue Note) e sotto la direzione del musicologo e produttore Kenneth S. Goldstein, Harlem Street Singer è il frutto della “lotta” fra quest’ultimo e lo spirito appassionato e irriducibile di Davis, che non conosce ragioni se non incidere in presa diretta e secondo la filosofia del “buona la prima”. Proprio la naturalezza dell’approccio, solo voce e chitarra (la quale tuttavia pare raddoppiarsi o triplicarsi negli entusiasmanti giochi ritmici e di fingerpicking prodotti dalla mano del Reverendo), è la chiave per decifrare la magia di queste dodici canzoni, raccolta di gospel blues dal tono salvifico e spirituale dove brani riadattati della tradizione e originali si susseguono, tenendo fede all’impostazione da “predicatore blues” che Davis ha ormai adottato da diverso tempo, per lo meno da quando si è trasferito a New York dalla North Carolina verso la prima metà degli anni Quaranta.

La foto di copertina arriva esattamente da una strada di Harlem, dove lo scatto è preso qualche istante prima di dirigersi verso lo studio di Gelder in New Jersey: Davis imbraccia un modello di chitarra acustica Gibson J-200, sulla quale l’intero Harlem Street Singer prende forma, partendo dal classico Samson and Delilah (rielaborazione della nota If I Had My Way di Blind Willie Johnson, in quegli anni portata al successo da Peter Paul and Mary) e passando attraverso una accalorata sequenza di “sermoni” folk blues che prendono i titoli di Let Us Get Together, I Belong to the Band, Pure Religion, Twelve Gates to the City, materiale sul quale un gruppo illuminato di giovani chitarristi bianchi dell'epoca, da Jorma Kaukonen a David Bromberg, da Ry Cooder a Stefan Grossman, si spaccherà la testa per rubarne i segreti della tecnica.

Davis però aggiunge un’interpretazione vocale che rimane non replicabile: la sua voce “strilla” con potenza e convinzione, quelle che derivano dal quel senso di missione cristiana che attribuisce al suo ruolo di musicista, oltre che di testimone di una dura, povera vita americana che solamente un uomo nero nato alla fine dell’Ottocento nel sud degli Stati Uniti può tradurre nelle sue canzoni. In tal senso, resta episodio esemplare e autentico capolavoro all’interno del suo lascito musicale il lamento di Death Don't Have No Mercy, che qui è incisa per la prima volta da Reverend Gary Davis, per entrare poi nel repertorio, tra gli altri, di Grateful Dead e Hot Tuna, assumendo alla metà dei 60s la fisionomia di un autentico manifesto, per quel senso di morte che circonda la generazione coinvolta direttamente nella guerra del Vietnam.


    


 


<Credits>