Carl Hiaasen
Crocodile Rock

Meridiano Zero
pp.382



Scrivere necrologi tutti i santi giorni forse non è il punto più basso del giornalismo, ma non è nemmeno l'occasione per dare una svolta positiva alla carriera. Un eufemismo per dire che è un vicolo chiuso, se non proprio un capolinea: Jack Tagger, il protagonista di Crocodile Rock, ci è arrivato perché da buon perdente è innamorato della verità, una rarità che è molto scomoda in quello "squallido gioco di interessi che non ha nulla a che fare con l'onesta pratica del giornalismo". Le sue parole dipingono bene il paesaggio umano che lo ricorda e che lo insegue perché il caso vuole che debba scrivere il "coccodrillo" (così, in gergo, i necrologi) di James Bradley Stomarti alias Jimmy Stoma, cantante e già leader degli Slut Puppies. Da lì, Carl Hiaasen imbastisce un noir frizzante e colorito, con molte sfumature (a tratti persino rosa), e non ultima una pungente ironia di fondo. La fine tragica di una rock'n'roll star, da cui si dipana la storia, è soltanto uno dei cliché dello stardom system che Carl Hiaasen assembla: c'è il comeback di Jimmy Stoma (impedito poi dagli eventi) e il un lost album, la canzone magica (ovvero un hit) e molto altro ancora, a dimostrazione di una dimestichezza con un vocabolario che solo in apparenza è superficiale, perché se non altro bisogna saper distinguere tra Black Crowes e Counting Crows. Attorno a lui un nugolo di personaggi femminili: una rete di donne che bilancia il primato cinico e spietato di Cleo Rio e che aiuta Jack Tagger a sciogliere l'ingarbugliato enigma e a ritrovare quelle due o tre cose che servono veramente nella vita e che né la fama né l'ambizione possono supplire. Da leggere senza esitazioni, con il sorriso sulle labbra e un disco di Warren Zevon come colonna sonora.

James G Ballard
I miracoli della vita

Feltrinelli
pp.227



Il sottotitolo dell'edizione originale era già abbastanza esplicativo: Shangai e Shepperton sono i due luoghi fondamentali della formazione e della vita di J.G. Ballard e il passaggio dal campo di internamento cinese alla periferia londinese (con la postilla del ritorno in visita a Shangai) contiene gli estremi e l'essenza stessa della sua esistenza. Legata con un filo doppio e contorto al mondo dell'infanzia. A Shangai, perché "tutto era possibile, e si poteva vendere e comprare qualsiasi cosa. In un certo senso, si potrebbe dire che era un set cinematografico, ma a quel tempo a me pareva reale, e io credo che una buona parte della mia narrativa sia stata un tentativo di evocare quell'atmosfera in un modo diverso dal semplice ricordo". A Shepperton, dove J.G. Ballard ha vissuto tutto il resto della sua vita perché, dopo l'improvvisa morte della moglie, si è ritrovato a fare da mamma e da papà ai suoi tre figli. L'autobiografia qui incrocia con una certa frequenza la storia dell'Impero del sole (anche se J.G. Ballard diffida poi delle immagini cinematografiche perché "il mondo del cinema è uno sgargiante palloncino tenuto in aria dall'entusiasmo, da una sicurezza di sé eccessiva e ridicola, e da tutti i sogni che il denaro può comprare") per poi dedicarsi, comunque in modo più breve e sintetico (ma non per questo meno lucido) ai passaggi fondamentali della carriera dello scrittore: la preparazione scientifica, il nuovo approccio alla fantascienza, le amicizie con Michael Moorcock e Kingsley Amis, il mondo dell'editoria londinese, le letture e il tran tran quotidiano inseguendo i miraggi della scrittura, che era e resta un miracolo più complicato di quelli della vita.

   

Hugh Barker & Yuval Taylor
Musica di Plastica

ISBN edizioni

pp.287


Il tema ci riguarda da vicino perché nelle "rootshighway" la ricerca dell'autenticità, qualsiasi cosa essa sia, è un imperativo quotidiano. Un tema su cui Hugh Barker & Yuval Taylor si spendono con una certa generosità, citando e ragionando attorno ad esempi che vanno da Kurt Cobain a Mississippi John Hurt, mettendo insieme una nutrita serie di suggestioni. E' il tono, proprio il modo con cui viene affrontata la "la ricerca dell'autenticità nella musica pop" (così come vuole il sottotitolo) a rendere stimolante e importante l'affrontare (dall'altra parte) la "musica di plastica". Tante domande, parecchi aneddoti, molti dubbi e persino i Replacements che ad un certo punto saltano fuori dalle pagine sollecitano a comprendere perché "la ricerca di autenticità culturale nella musica popolare sia sempre una ricerca per qualcosa che appare più profondo della realtà che viviamo. Nell'esotico, il nostalgico, lo straniero o il primitivo, possiamo sperare di percepire verità eterne che sembravano venir meno nella confusione della vita moderna. Ma inseguire l'autenticità in altre culture o in tempi passati è improbabile che curi una percepita mancanza di autenticità in casa. Perché ovunque si vada, ci si porta sempre dietro se stessi". Hugh Barker & Yuval Taylor soluzioni non ne offrono (anche perché è già difficile capire la realtà, figurarsi distinguere tra falso e autentico), ma arrivati in fondo una bella riflessione ci sta tutta, e non è poco.

Tom Perchard
Lee Morgan

Odoya
pp.165


E' difficile trasformare una biografia, un tratto di tempo preciso e rivolto ai profili di una singola persona, in un segmento storico, capace di comprendere la realtà e il destino di un popolo. E' ancora più complesso quando la personalità che si va ad affrontare è quella di un jazzista spesso travolto dalla sua stessa vita, ma sempre coinvolto, per parafrasare il titolo di un suo disco, da un "sesto senso" che l'ha portato a condividere istanze sociali e politiche sempre più rilevanti. L'attenzione verso Lee Morgan, trombettista che dal 1956 al 1972 ha suonato con tutti i grandi jazzisti dell'olimpo (dalla lunga e proficua collaborazione con Art Blakey a quella con Hank Mobley, giusto per citarne un paio) diventa un libro documentatissimo (e curatissimo, almeno per quanto riguarda l'edizione italiana) che va ben oltre la stretta biografia (che comunque è già abbastanza complessa) e diventa un sorta di sguardo obliquo sul mondo del jazz e per estensione della cultura afroamericana. Basta citare una piccola polemica dello stesso Lee Morgan per capire che si tratta di un territorio in gran parte inesplorato: "Sono sicuro che se mandassero in onda il jazz e le altre forme d'arte, le persone le ascolterebbero. Ma non vogliono perché quando le persone iniziano a pensare, lo fanno sempre di più. Il jazz è una cosa vera, e deve essere circondata dalla verità". Quella cosa lì (la verità) qui è facile trovarla, anche se è difficile digerirla. Consigliatissimo.

 


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