inserito 25/03/2007

Eric Andersen
Avalanche
  7
Eric Andersen
  7.5
[
Runt/ DBK works 2008]

Nel 1970, i "favolosi sessanta" sono appena finiti, e non solo per una pura coincidenza temporale. E' l'idea stessa di racchiudere il mondo e le sue storture nella manciata di minuti di una canzone ad essersi incrinata. La me-generation e il suo ripiegamento ossessivo sulla vita privata degli autori, su ansie, speranze e disillusioni che non sono più quelli di un movimento intero, bensì di un singolo soggetto, è alle porte. Eric Andersen, nato a Pittsburgh, Pennsylvania, nel 1943 ma giovanissimo volato a New York per acciuffare il fiume di parole di Bob Dylan e il giornalismo cantato di Phil Ochs, ha già realizzato sei dischi, assumendo tuttavia l'abitudine di non dare nulla per scontato. Ha già dato voce (e che voce!, aspra, bassa, tenorile, maschia e sofferta come uno dei violenti "concetti spaziali" di Lucio Fontana) a chi, dietro le vetrate di una coffeehouse del Greenwich Village, sognava di cambiare il corso della politica americana a suon di folk e country, e ora è pronto a estrinsecarne dubbi e ripensamenti.

Il suo campione di vendite, l'ancora magnifico Blue River (1972), è a un passo dal vedere la luce, ma gli Avalanche ed Eric Andersen usciti due e tre anni prima, incarnano per il momento una splendida transizione confusa e lacerata, manufatti irripetibili da un'epoca in cui persino una major - la Warner Bros. - poteva pagare l'affitto di una sala di registrazione a un folksinger desideroso soltanto di imprimere incertezze, tormenti e inquietudini di una generazione sui polimeri di un acetato di vinile. La DBK Works di San Francisco li ristampa oggi con la consueta sciatteria, evitando accuratamente ogni collocazione di ordine cronologico e dimenticandosi persino di indicare musicisti o tecnici coinvolti, ma visto il disordine con cui è stata sinora ristampata la discografia dell'artista, un'imprecisione in più o una in meno non toglieranno agli appassionati il piacere di riscoprire due pagine in genere dimenticate (trascurate di sicuro) del suo periplo: un cammino creativo che nei suoi momenti migliori, e non sono pochi, vale tanto quanto il Bob Dylan più rivoluzionario, la Joni Mitchell più raccolta o il Lou Reed più affilato.

Avalanche
, primo album licenziato all'infuori di uno storico sodalizio con l'etichetta Vanguard, esce dopo il delizioso esperimento rootsy di A Country Dream ('69) e in parte ne sconfessa il pimpante e vivace tradizionalismo. I sentieri battuti sono quelli di una canzone folk gracile e introspettiva, sovente perduta nel vortice onirico dei propri pensieri. It's Comin' And It Won't Be Long è un consistente apocrifo dylaniano, ma i pensosi vagabondaggi folkie di So Hard To Fall o Think About It, appena sgrezzati da cori femminili e orchestrazioni leggere, non fanno nulla per non assomigliare a monologhi rivolti dall'autore alla parte più intima del proprio io. Come se l'ispirazione di Andersen seguisse un duro confronto personale, un serpente di riflessioni in ogni istante pronto a mordersi la coda, non c'è uno spiraglio luminoso che non sia l'elegia bohemienne di (We Were) Foolish Like The Flowers, mentre il vortice angoscioso delle meditazioni si addensa fino a sfociare negli otto minuti visionari di For What Was Gained, lungo tormento confessionale di un ragazzo morto in Vietnam che spazza via l'anti-militarismo in fondo ottimista di Thirsty Boots o Violets Of Dawn rovesciandogli addosso una cappa di pessimismo quasi irrespirabile.

Più accessibile il successivo Eric Andersen, di nuovo imperniato su di un country-rock soffice e arioso infarcito di steel, controtempi, percussioni e sbuffi honky-tonk. It Wasn't A Lie, Secrets e I Will Wait si presentano ancora quali ballate scontrose e per nulla ammiccanti nei confronti dell'ascoltatore non sintonizzato sulla poetica minimalista del nostro, ma il rockabilly elettrico di I Was The Rebel (She Was The Cause) o l'inconfondibile impronta country-soul di una Don't Leave Me Here For Dead che sarebbe piaciuta a Spooner Oldham, catturano Andersen in una delle fasi più estroverse della carriera. Sign Of A Desperate Man e She Touched Me, con quelle rasoiate d'organo quasi funky, avrebbero potuto infoltire il catalogo di Dusty Springfield o Charlie Rich; la delicatezza pianistica di Go Now, Deborah tradisce invece un ascolto non distratto dei Beatles di Revolver ('66) e dell'accorata For No One in particolare.

Non saranno imperdibili, Avalanche ed Eric Andersen, dacché, se proprio volete andare a ritroso nel curriculum dell'artista, gli vanno senz'altro preferiti il citato Blue River, lo spartano esordio Today Is The Highway ('65), l'incompreso Ghosts Upon The Road ('89) o il recente Memory Of The Future ('98). Ma rappresentano comunque tappe significative nel percorso di un musicista che solo il destino cinico e baro può aver relegato al confino avvilente degli "eroi di culto".
(Gianfranco Callieri)

www.ericandersen.com
www.runtdistribution.com/dbk




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