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Drive-By Truckers
The Complete Dirty South
[New West Records 2023 - 2Cd]

Sulla rete: drivebytruckers.com

File Under: Let there be rock (stories)


di Gianfranco Callieri (30/06/2023)

Proviamo innanzitutto a mettere in fila un po’ di contabilità. Per i Drive-By Truckers, nati nel 1996, in quel di Athens, Georgia, per volontà dei due amici Patterson Hood e Mike Cooley, che avevano già fondato altri gruppi e venivano dal mondo del soul il primo (figlio di David Hood, bassista nella sezione ritmica dei Muscle Shoals), dal bluegrass operaio il secondo, The Dirty South - uscito in origine nel 2004 - era il quinto album. Il secondo dopo l’exploit critico e discografico di Southern Rock Opera (2001), il torrenziale doppio col quale avevano per la prima volta tentato di conferire una dimensione istrionica e plateale all’intreccio tra le loro radici sudiste e la sfera di adolescenze spese inseguendo le cicatrici del post-punk; il secondo realizzato, dopo la defezione di Rob Malone, consegnando parte della scrittura e delle esecuzioni chitarristiche - un triplo arsenale di strumenti sulla falsariga dei Lynyrd Skynyrd - a Jason Isbell, autore e musicista dell’Alabama, ai tempi sposato con la bassista Shonna Tucker, che se ne sarebbe andato sei anni più tardi e, una volta ripulito da droghe e alcol, avrebbe intrapreso un’acclamata carriera solista.

In un certo senso, però, The Dirty South poteva anche essere una specie di "esordio", lo sforzo fino a quel momento ancora latente di asciugare le 20 tracce di Southern Rock Opera alla luce delle malinconie, delle amarezze e delle sfumature meno granitiche emerse nelle 15 del successivo Decoration Day (2003), così da dare luogo a quattordici, nuove composizioni in grado di portare alle estreme conseguenze il suono bruciante, compresso e claustrofobico dei lavori precedenti spingendolo verso nuovi vertici di nichilismo e rumore. L’impresa riuscì, e anche per chi, come il sottoscritto, apprezza i DBT soprattutto nelle loro incarnazioni meno fluviali, per esempio quelle del capolavoro A Blessing And A Curse (2006) o degli ultimi quattro album, uno più bello e maturo dell’altro, The Dirty South sembrò da subito un’opera capitale, ricchissima di pathos e, in egual misura, di sventagliate rockiste; soprattutto, apparve come la concretizzazione, priva di difetti o capitoli superflui, di una delle ossessioni coltivate da Hood per lungo tempo, quella cioè di allineare un ciclo di brani dal sapore cinematografico, «grandi» non solo nelle ambizioni bensì nel perimetro narrativo, concettuale, aneddotico.

E infatti, se Southern Rock Opera era stata una celebrazione, non priva di lati oscuri (anzi), di una mitopoiesi sudista vissuta da ragazzi ubriachi di liquori, passerelle tra Ozzy Osbourne e Randy Rhoads, chilometri di campagna, gasolio, armi, fabbriche abbandonate, famiglie in disarmo, umidità alle stelle e riff degli AC/DC, The Dirty South fu l’occasione in cui tutte le contraddizioni in precedenza soltanto adombrate o evocate di passaggio - il razzismo inestirpabile di metà nazione, gli abusi domestici, l’acolismo dilagante, la propensione a una violenza vista come risolutrice di qualsiasi controversia, il tetro dissolversi dell’influenza e del ricordo delle leggende del rock - esplodevano fino a prendersi il centro della scena, invariabilmente detenuto con rabbia e aggressività.

Insomma, là dove Southern Rock Opera somigliava al loro Zen Arcade (Hüsker Dü, 1984) in virtù del suo porsi quale arruffata, a tratti catartica e a tratti selvaggia iniziazione alla vita di anime giovani ma già tormentate dal proprio retaggio, da luoghi di provenienza troppo schiaccianti per poterseli lasciare alle spalle, The Dirty South provava a essere un altro Warehouse: Songs And Stories (Hüsker Dü, 1987), un più composto benché non meno lacerante cantico generazionale sul parallelismo tra il passaggio della linea d’ombra e l’automatico trovarsi impantanati in una melma di frustrazioni, fallimenti e rimpianti dove l’ombra "del Sud", con i suoi racconti sulfurei e la sua cronaca nera grondante brutalità, mozzava il fiato in gola anziché assicurare una ventata d’aria fresca. La citazione degli Hüsker Dü non è casuale: se c’è, infatti, una cosa che i nuovi remix di questo The Complete Dirty South rendono evidente, è quanto le sonorità del gruppo, abrasive, spesso metalliche, lancinanti anche quando paiono mordere il freno, fossero indebitate con quelle confezionate da Bob Mould e Grant Hart nelle loro stagioni di militanza presso la Warner Bros.

Ci sarà un motivo se David Barbe - bassista proprio di Mould negli Sugar da lui capitanati nel triennio ’92/’95 - ha prodotto tutti i dischi dei DBT dal 2001 a oggi, e ce ne sarà un altro se, dietro la cortina fumogena dei continui rimandi a Skynyrds, Molly Hatchet e 38 Special, il duo composto da Hood e Cooley in seguito alla disgregazione degli Adam’s House Cat e prima della nascita dei Truckers si chiamava Virgil Kane, come il soldato sudista (quasi omonimo: nella canzone il cognome è Caine) di cui parla The Night They Drove Old Dixie Down della Band. Ecco, immaginate un incrocio tra lo spirito roots di Robertson, Helm e soci, in contemporanea pittorico e pastorale, e il martellante post-punk degli Hüsker Dü, e avrete un’indicazione abbastanza verosimile di cos’abbiano suonato i DBT nella prima metà degli anni duemila.

Di questo suono, The Dirty South è il manifesto più probante, cupissimo nelle tematiche (a detta degli stessi artefici, la Daddy’s Cup di Mike Cooley era l’unico brano a non radiografare una vicenda traumatica) eppure piuttosto variegato negli arrangiamenti, capaci di spaziare dal minimalismo folk dell’avvolgente Goddamn Lonely Love, accarezzata dai velluti di un organo d’altri tempi, al tradizionalismo allucinato della cinematica The Sands Of Iwo Jima, dove un veterano di guerra irritato dalla rappresentazione del conflitto data nel film omonimo (da noi Iwo Jima, Deserto Di Fuoco) dichiara di «non aver mai visto John Wayne» sulle sabbie dell’isola giapponese, dalla società proibizionista ritratta attraverso immagini bibliche (alla Flannery O’Connor) e rasoiate rock’n’roll di Where The Devil Don’t Stay al martirio della classe lavoratrice raccontato con effervescenza byrdsiana nella stupenda The Day John Henry Died.

Spettacolare, poi, è il trittico di canzoni dedicato da Hood e Cooley allo sceriffo Buford Pusser, il più giovane tutore dell’ordine (eletto all’età di 28 anni) nella storia del Tennessee, responsabile nella seconda metà dei ’60 di una solitaria crociata contro la prostituzione, il contrabbando di liquori e il gioco d’azzardo alimentati e promossi, sul confine col Mississippi, dalla cosiddetta «Dixie Mafia», scampato a numerosi attentati (in uno dei quali, però, ci rimise la pelle la giovane moglie), abituato a girare e difendersi con un bastone passato alla storia, immortalato in un rozzo ma efficace revenge-movie di enorme successo (Un Duro Per La Legge [Walking Tall, 1973] di Phil Karlson, trent’anni dopo oggetto di un penoso remake con Dwayne “The Rock” Johnson nei panni di Pusser), morto trentaseienne in un incidente d’auto alquanto sospetto: grazie a chitarre scartavetrate e schegge di lamiera, in The Boys From Alabama e The Buford Stick, entrambe composte da Hood, i fatti storici vengono inquadrati e narrati dal punto di vista dei criminali, mentre nel rantolo per voce e chitarra della tenebrosa Cottonseed, Cooley esplora l’inquietudine dell’uomo di legge consapevole di rischiare la vita, ogni giorno, in un contesto sociale ormai completamente deragliato. Ma bisognerebbe spendere qualche parola anche per lo psicotico, younghiano (nel senso di Neil) attorcigliarsi delle sei corde nella corrosiva Lookout Mountain (Hood), per l’autoritratto distruttivo e tristissimo dipinto nel marziale country-folk di Danko/Manuel (Isbell, ancora in quota The Band), per la sublime nostalgia rockista di una Carl Perkins’ Cadillac (Cooley) in cui l’intero scibile del r’n’r nel suo momento aurorale viene condensato in cinque minuti elettrici, incalzanti, rigeneranti.

The Complete Dirty South, disponibile in doppio CD e doppio vinile con vari cadeaux aggiunti (molti relativi alle illustrazioni del solito Wes Freed, purtroppo scomparso nel 2022 ndr), ci riconsegna un disco scintillante anche a vent’anni dalla sua uscita, con un suono (rivisitato per l’occasione) ancor più ruvido di quello del prototipo, due tracce vocali rimpiazzate ad hoc (con cambiamenti quasi impercettibili in The Sands Of Iwo Jima e un assetto invece assai più scorticato nel bilancio esistenziale di Puttin’ People On The Moon, flusso di coscienza di una testa calda finita a fare lo scaffalista, sottopagato, in un supermarket) e tre brani non presenti nella scaletta originaria, il country-rock ecologista della TVA di Isbell e due pezzi di Hood già apparsi nell’antologico The Fine Print: A Collection Of Oddities And Rarities (2009), l’apologo elettrico (sopra una storia di suicidio) di una Goode’s Field Road leggermente rimaneggiata, più secca e diretta, e l’epica ferrosa di The Great Car Dealer War.

Nelle 48 pagine (!) del libretto di questa nuova edizione, Patterson Hood definisce The Complete Dirty South il director’s cut del suo predecessore, la sua versione approvata e ratificata da chi ne fu artefice. Per quanto la definizione sia azzeccata e suggestiva (Hood, con queste cose, ci sa fare: se esistesse un premio per le migliori liner-notes, lo vincerebbe con regolarità), non basta a rendere "necessario" l’acquisto, soprattutto per chi già possieda l’adattamento precedente, col quale le differenze sono peraltro minime. I DBT, come tutti, sanno perfettamente di vivere nelle stagioni della dittatura dell’engagement, della partecipazione forzata, della perenne chiamata a raccolta - unica iniziativa in grado di scongiurare repentine cadute nell’oblio - dei propri estimatori e dei propri appassionati. The Complete Dirty South risponde, molto semplicemente, a questa necessità, all’esigenza di sollecitare a intervalli regolari platee altrimenti distratte, trascurate, risucchiate nel vortice di un’offerta di gran lunga superiore a qualsiasi domanda. Ma The Dirty South resta un disco così bello, romantico, espressivo e disperato da farci dire che, se c’era bisogno di una scusa per rispolverarlo, per tornare a immergersi nella sua dimensione tagliente e ostinata, allora siamo tutto sommato disposti anche a credere, volendo restare ai casi recenti, alla barzelletta su come “Sleepy” Joe Biden sappia davvero quale sia la differenza tra Ucraina e Iraq.

 


    



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