Neil Young
Homegrown

[Reprise/ Warner 2020]

neilyoungarchives.com

File Under: pieces of a man

di Fabio Cerbone (21/06/2020)

A metà del decennio più turbolento e artisticamente fecondo della sua carriera Neil Young è un uomo assediato dai fantasmi, dalla morte e da un senso di accerchiamento, generato dal successo inaspettato che lo ha travolto dopo la pubblicazione di Harvest, il suo disco milionario. Da questa bufera umana e psicologica cerca di fuggire in direzione ostinata e contraria, provando più o meno consapevolmente a distruggere pezzo dopo pezzo la fama raggiunta. Da lì emergerà la cosiddetta “ditch trilogy”, sequenza di album (Time Fades Away, On the Beach, Tonight’s The Night) che hanno creato una parte preponderante del suo fascino di “loner”, cantore degli abissi dell’anima, del crollo dei sogni di una generazione e dei suoi struggimenti. Alla fotografia mancava sempre un dettaglio, un “se fosse stato” che escludeva dallo sguardo uno stralcio abbondante di registrazioni tenutesi fra l’estate del 1974 e il gennaio del 1975 in diversi studi, fra Nashville, Los Angeles, il Broken Ranch dello stesso Young e persino Londra.

Avrebbero dovuto far parte di un fantomatico album, Homegrown, mai realizzato, al quale Neil Young preferì il più tetro e denso di significati personali Tonight’s The Night, inciso due anni prima ma pubblicato proprio nel 1975: una scelta che pagava pegno al ricordo degli amici Danny Whitten e Bruce Berry, portati via dall’onda devastatrice dell’eroina, e offriva così uno dei vertici del suo linguaggio country rock sbilenco e precario, visioni di rock desertico e blues allucinato in preda a droga, alcol e autodistruzione. Più volte oggetto di “bootlegaggi” vari, di mitizzate raccolte nonché di brani sparpagliati o regalati sotto altre forme e altre interpretazioni nel corso degli anni (da qui, per esempio, sarebbero sbucate anche Pardon my Heart o Through my Sails, finite in Zuma, o The Old Homestead, inserita in Hawks and Doves), Homegrown è finalmente ripensato nella successione di dodici brani (sette inediti assoluti) pubblicata per i famosi Archivi con un’adorabile grafica di copertina, sulla falasariga di iniziative simili realizzate nel recente passato (si pensi soprattutto a Hitchhiker).

Sulla fedeltà o meno agli intenti originari è assai poco utile interrogarsi: Neil Young avrà rispettato l’esatta sequenza del tempo o ne avrà semmai ricavato una memoria rivisitata con gli occhi dell’artista di adesso? Innegabile comunque che Homegrown abbia una sua coerenza interna, un piccolo posto nella storia discografica del canadese e naturalmente anche un’attrattiva che nasce dalla curiosità di affrontare per la prima volta queste canzoni come un unico corpo musicale. Alcune sono già note a chi ha frequentato con intensità il songbook di Young, altre meno, tuttavia il loro legame non sembra restituire l’impronta di un “lost classic”, di una sorta di vagheggiato capolavoro, magari ingiustamente dimenticato nei cassetti: Homegrown è semmai affascinante proprio nel mostrare un altro nebuloso scatto di quel caotico periodo, funestato dalle ombre del rapporto in frantumi con la prima moglie Carrie Snodgress e dai problemi di salute del figlio Zeke, integrando il discorso che già ricadeva a cascata sui contemporanei album ufficiali. Spezzato, impreciso, attraversato da bozzetti, vicoli ciechi, canzoni interrotte e momenti di pura illuminazione, Homegrown non possiede la provocatoria liberazione di Time Fades Away, radiografia dal vivo di un crollo umano, né la bellezza adamantita e languida del capolavoro On the Beach, e neppure il disarmonico quanto autentico grido di disperazione di Tonight’s the Night. È piuttosto un saliscendi di emozioni, incise sulla carne viva di Young, il quale, quando trova una pista fuori dalla coltre che lo avvolge, ottiene i risultati sperati, altre volte invece pare semplicemente abbadonarsi all’idea del momento.

L’uno-due iniziale ricade nella prima casistica: la band (ci sono i fedeli Tim Drummond e Ben Keith presenti in lungo e in largo), con Levon Helm ospite alla batteria, entra svagata e insegue l’umore da matriminio fallito di Separate Ways, tepore country degno di Harvest ma più straziante, che raddoppia nella succesiva Try, addolcita dalla voce di Emmylou Harris come fossimo dentro una outtake di Comes a Time. Lo schizzo pianistico di Mexico, un frammento, colloca già la questione su un crinale più scivoloso, interrompendo l’apparente idillio musicale. Confermando tutte le idiosincrasie dell’artista, che sono in fondo ciò che lo rendono ancora oggi unico e vitale rispetto a molti coetanei, l’opera cosciente di sabotaggio prosegue con la scalcagnata marcia country rock della stessa Homegrown (inno dai risvolti ecologisti che sarà reinciso per American Stars ‘N Bars), un brano che quando sembra prendere quota è già finito, sfumato in una nuvola di elettricità alticcia. E se dunque la limpida melodia da filastrocca folk (rielaborazione della nota Dance Dance Dance) di Love is a Rose apre un’oasi di pace e Kansas squarcia il velo della maliconia acustica dell’autore, il blues lascivo, lamentoso e cubista di We Don’t Smoke it No More e la follia di Florida buttano tutto immediatamente fuori dalla finestra, la seconda in particolare uno strambo sogno allucinogeno, accompagnato da un semplice parlato di Young e da rumori sinistri di sottofondo (potrebbe rimandare ad un violino straziato, ma pare sia un bicchiere “martoriato” dalle dita di Ben Keith).

L’album torna a brillare, uscendo dalla scontrosità precedente, con due delle gemme più preziose in scaletta: senza dubbio la versione primordiale di White Line (in seguito screziata in toni più sanguigni ed elettrici con i Crazy Horse e inclusa in Ragged Glory), qui eseguita in dolcissimo abito country folk con l’ospite Robbie Robertson in gran spolvero alla seconda chitarra, e quindi il contraltare dai nervosi sobbalzi rock di Vacancy, che non avrebbe affatto stonato nella scaletta di Time Fades Away. Il finale è più quieto, un atterraggio morbido nell’accogliente ritiro della campagna, per placare un’anima ferita: Little Wing, che sarebbe riemersa in Hawks and Doves anni dopo, si accartoccia sui sussurri di voce e armonica, dileguandosi velocemente e lasciando campo alla cullante armonia agreste di Star of Bethlehem (anch’essa recuperata in seguito su American Stars ‘N Bars), la seconda voce di Emmylou Harris a nascondere con le carezze tutta l’agitazione e il subbuglio che muoveva la tempesta interiore di Neil Young.

Homegrown è una coda di quella tempesta, non ne rappresenta l’occhio del ciclone e men che meno il momento più catartico, ma aggiunge qualche particolare in più sull’attraversamento inquieto di un’epoca.


    



<Credits>