The Long Ryders
Native Sons (Deluxe reissue)
[Prima records.  2011
]



Una "y" infilata nel bel mezzo di quel Ryders, Gene Clark a duettare in Ivory Tower e l'album dei ricordi del rock californiano si apre sulle pagine di una "nuova psichedelia" aggiornata agli anni 80. Qualcuno la chiama Paisley Underground, aumentando il mistero sul nome e sulle origini, ma a conti fatti si tratta soltanto di alcune coraggiose rock'n'roll band che si infilano nel riflusso dell'epoca post punk e per ripicca al rumore di fondo riscoprono la tradizione, ogni protagonista peraltro con una sua caratteristica non uniformabile. Infatti, la band di Sid Griffin e Stephen McCarthy, attratti dal sole opaco di Los Angeles ma nati e cresciuti in un più duro Midwest americano, prende contatti con la scena cittadina ma si distanzia subito dalle frange più oniriche del movimento: amici di Steve Wynn certo, e dei Green on Red poi, con cui arriveranno a inventarsi l'isolato, splendido omaggio alla polevere country&western di Danny & Dusty, The Long Ryders abitano i luoghi più nascosti alla vista di un country rock dal riottoso animo garage, pregando tanto i santini dei Byrds e dell'amato Gram Parsons (di cui Sid Griffin diverrà una sorta di esegeta) quanto quelli delle più oscure frange della California entrate nelle cronache di Nuggets, l'antologia per eccellenza delle misconosciute bande sixties. Si trovano così sullo stesso sentiero dei Beat Farmers, dei primi Los Lobos, dei Blasters e di altri rinnegati che seguono un percorso a ritroso nella memoria.

È il 1984 d'altronde, un'altra era geologica del rock'n'roll, con i tempi che corrono e il consumo continuo di novità che tutto ci fa dimenticare in fretta: fra suoni sintetizzati, capigliature improponibili e nuove reginette del pop, la musica di questa nuova sponda californiana si rintana invece nelle cantine e suona anacronistica fin dal primo rintocco di chitarra in Final Wild Son. È la traccia che apre Native Sons, esordio sulla lunga distanza dei Long Ryders, che ricompare in gran spolvero con una cura all'ingrasso che oggi ne propone una degnissima versione deluxe, aumentata a 24 canzoni dalla presenza dell'ep di debutto 10-5-60 del 1983, dalle cosiddette 5x5 Sessions del 1985 e addirittura dalle demo nominate Radio Tokyo datate 1982, con le prime bozze di Still Get By e And She Rides. Suona tutto ancora adesso immutato nella sua fresca innocenza: una riscossa dell'indipendenza che ruba lo spirito alla quasi coeva rivoluzione punk ma lo applica ai nuovi interessi per il passato di questa generazione.

E' il primo segnale del ritorno alle radici, annuncio di un'Americana a venire, primo mattone della casa alternative country che sarebbe nata negli anni Novanta: appare oggi come un piccola Bibbia del rock provinciale Native Sons, apripista di una sensibilità che si sarebbe allargata a macchia d'olio sul vasto territorio del nulla americano, lasciando testimonianze rinvenute poi nell'esperienza di Uncle Tupelo, Jayhawks (non a caso Stephen McCarthy ci finirà a suonare in una delle diverse formazioni), Waco Brothers (Jon Langford dedica ai Long Ryders uno dei suoi ritratti "scheletrici" all'interno del booklet), Whiskeytown e mille altri. Ce lo fa intuire anche John Mackey, amico, giornalista e road manager della band in quella stagione, che cura le note del libretto, ricco di foto e piccole memorabilia. Lo dicono soprattutto i suoni di Native Sons, album che lancia ancora scintille e sprizza la stessa energia travolgente della mistura di Rickembacker e Telecster in mano alla coppia Griffin-McCarthy, completata dalla sezione ritmica di Greg Sowders e Tom Stevens: Final Wild Son è uno stantuffo country rock che aggiorna la stagione degli outlaw e di Johnny Cash, Still Get By una scudisciata che rinfresca il garage rock, Run Westy Run e Tell It to thye Judge on Sunday altri esempi di un intelligente recupero dei sixties più spensierati, I Had a Dream una chiusura che si tinge di grandi orizzonti psichedelici, mentre la ripresa di (Sweet) Mental Revenge, una vecchia hit country firmata da Mel Tillis, e l'hillbilly rock di Never Got to Meet the Mom ritornano verso la campagna e una idealistica immagine della tradizione, come se i Long Ryders fossero i nuovi pionieri di una frontiera americana a tempo di rock'n'roll.

La fotografia d'insieme conferma lo zenith della band, mai più su questi livelli di affiatamento e ispirazione (seppure la maturità del successivo The State of Our Union sia un punto di arrivo notevole e Two Fisted Tales un canto del cigno da rivalutare), pronti a guidare le fila di una riscossa sulla strada e per la strada, insieme agli altri generosi rimestatori della tradizione. Rispetto però ai molti dirimpettai dell'epoca, colpisce davvero la duttilità dei Long Ryders nel fare proprio il linguaggio dei sixties: il rispolvero dell'ep 10-5-60, dove ancora è presente il primo bassista Des Brewer, mostra questo talento spostandosi dal jingle jangle tipicamente byrdsiano di Join my Gang ad una chiasossa, vibrante title track, svicolando tra gli aromi beatleasiani un po' retrò di Born to Believe in You, una avvincente The Trip che ricorda i primi Heartbreakers di Tom Petty (la scuola e gli studi fatti sono gli stessi…) e la splendida visione lisergica di And She Rides, piccolo sottovalutato classico del gruppo. Un gioco di rimandi che diventa persino più esplicito con il ripescaggio delle 5x5 Sessions: qui i Long Ryders si mettono a nudo proponendo le cover rivelatrici di I Can't Hide (dai Flaming Groovies di Shake Some Action) e Master of War (Bob Dylan), quest'ultima in una cruda rilettura per chitarre elettriche e violino che li ricolloca improvvisamente nel pieno del Paisley. L'impressione generale però che si ricava dalla lunga cavalcata proposta in questa edizione deluxe di Native Sons è che i Long Ryders siano stati degli ingenui battitori liberi, dentro una spensierata e irripetibile primavera del rock'n'roll americano: con i loro caschetti, i loro stivali d'ordinanza e quell'aria da esploratori del vecchio West in un mondo che non li avrebbe mai accettati se non come una pagina scritta troppo in ritardo sui tempi.
(Fabio Cerbone)

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