The Bluesmen - Rebels
[A.M.F.
2011]
Le Trois Tetons- Danger
Eyes [Le
Trois Tetons 2011] Grace
in Sand - Grace
in Sand [Grace
in Sand 2011]
Titolo impegnativo e bellissima copertina: l'intento del quartettto ferrarese
è opporsi in qualche modo alla prevedibilità, in fondo evocata dal loro stesso
nome. Le dodici battute rientrano senza dubbio nel linguaggio dei Bluesmen,
giunti con Rebels al quarto lavoro sostenuto dall'Associazione Musicisti
di Ferrara, ma si rimescolano con pulsioni che vanno ad abbracciare altri stili
dell'american music, flirtando con il country, il soul, persino il border messicano.
Le intenzioni sono ottime e le qualità strumentali del quartetto, con le chitarre
di Roberto Formignani e le tastiera di Massimo Mantovani in netta evidenza, non
sono messe in discussione: manca semmai un certa tenuta generale del repertorio,
con l'inserimento di troppi strumentali "di maniera" che rendono la scaletta di
Rebels altalenante nei risultati. La lunga collaborazione al fianco del songwriter
Dirk Hamilton ha prodotto i suoi frutti, confermando la presenza di quest'ultimo
in diversi episodi dell'album, anche in veste di co-autore: tra questi ottima
la partenza con Where Are All the Rebels?
galoppante country rock dal passo western con un impeccabile lavorio di Formignani
alla sei corde; più prevedibili invece la ballata slow blues
The Collector e l'acceso southern rock di
Automation Town (sferzante e rocciosa ai limiti dell'hard) e Baby
Take a U-Ey, solcata da una feroce chitarra slide, le quali tuttavia
nell'insieme contribuiscono ai cambiamenti di umore del disco, mostrando l'eclettismo
della band nel maneggiare i generi. Dove si resta più confusi è nella presenza
di un banale rock'n'roll quale Slow Down Bob,
firmata dal solo Hamilton e da lui stesso interpretata. Presenza costante la voce
di quest'ultimo, a sopperire probabilmente la tendenza dei Bluemen per la componente
strumentale. Come anticipato Rebels si nutre di diversi momenti esclusivamente
musicali: se Ten Miles to Mexico è attraversata
da un dolce ricamo spanish della chitarra, degno del Ry Cooder di frontiera, il
soffuso blues jazzato di Elegant Blues o la
sbuffante marcetta country elettrica di Canyon Riders
suonano per lo più come gradevoli esercizi di stile. Occorre concentrarsi con
più attenzione sul songwriting. (
6.5)
www.thebluesmen.it Ancora
all'insegna dell'autoproduzione, nel personale studio mobile della band, i liguri
Le Trois Tetons approdano al terzo lavoro confermando la cifra stilistica
che il precedente A Pack of Lies ci aveva segnalato. La formula mantiene dunque
quello strato di "sporcizia" e sonorità d'istinto che contraddistingue l'ispirazione
del gruppo, chiaramente legato ad un rock'n'roll dalla matrice "settantesca",
con sentori blues e qualche seduzione psichedelica. I Rolling Stones vengono naturalmente
citati come stelle polari, anche dagli stessi Le Trois Tetons, ma navighiamo in
fondo in un grande mare di suggestioni che ripercorrono la strada maestra del
genere, dai sixties in poi: The Ghost of My mother,
con un'armonica ad intrecciarsi con gli accordi bluesy delle chitarre, richiama
persino passaggi degni del suono alcolico dei Green on red, Beaujolais
and Sufferings si apre con un pulsante basso dalla trame new wave trasformandosi
in un'ariosa ballata rock, mentre episodi quali Waiting
e No Scars puntano decisamente alla radice
rock blues, quasi un omaggio al pub rock inglese dei tempi gloriosi. I tentativi
più coraggiosi, seppure non tutti pienamente riusciti, di Dangereyes,
arrivano nella coda finale, tra la voce filtrata e l'ambientazione tipicamente
psichedelica evocata da Nightlife (Followed by Shadows)
ma soprattuto con il frutto migliore del disco, Don't
Trust the Mirror, trame elettro-acustiche e una palpabile tensione.
Fuori da qualsiasi gioco delle mode, outsiders per vocazione sin dal curioso nome,
il pur grezzo suono de Le Trois Tetons non si regge certo per la sua originalità,
ma per il retaggio di storia e passione che riesce a evocare. (
6.5)
www.3tetons.it
Su sentieri più acustici, di chiara ispirazione roots e vagamente "desertici"
si incamminano i milanesi Grace in Sand, suggestivo nome che evoca immediatamente
un preciso filone della tradizione americana. Anche la copertina e il suo paesaggio
sfumato e onirico sembra suggerire tale percorso: il breve strumentale 27#
riflette strade polverose nei riverberi della chitarra di Rino Villano,
ma è solo una delle escursioni della band nei territori di certo desert sound
alla Calexico, ripreso con più insistenza proprio nella title track, che ospita
anche la tromba di Francesco Piras. Per il resto del viaggio siamo trasportati
in ambientazioni più rurali, gentilezzze country rock e rustici sapori blues da
portico che fanno della sottrazione, del suono roots la loro ragione d'essere,
sempre prestando attenzione però alla limpida qualità dell'incisione. Il motivo
retrò che accompagna Jazz in Sun è il campanello
che annuncia l'anima più sincera dei Grace in Sand. Sulla scia old time di queste
melodie si accodano East Circus, lo sbuffante
e primordiale rockabilly di Cherry in a Bottle,
la ballata bluesy Half Past 8 e il più colorato
apporto ritmico di About a Trip, con tonalità
da border music. Se questa manciata di brani rappresenta l'aspetto più tradizionale
della band (il trio è completato da Enri Castello al basso e Toni Palmitesta allla
batteria), sull'altro versante si fanno notare brani dal tessuto più melodico
e vagamente west coast (Flower in a Drop,
Back Door), che forse
avrebbero richiesto una maggiore convinzione in fase di arrangiamento (Anyway
chiude con passo elettrico, ma pare un po' smorzata). A tratti l'interpretazione
di Villano appare infatti eccessivamente frenata, una soluzione che può funzionare
soltanto in alcuni frangenti del disco. Ci sono comunque buoni spunti e qualità
tecniche da cui partire per allargare le ambizioni dei Grace in Sand. (
6.5) (Fabio
Cerbone)
www.myspace.com/graceinsand
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