inserito 07/09/2011

The Bluesmen - Rebels  [A.M.F.  2011]  
Le Trois Tetons-
Danger Eyes  [Le Trois Tetons  2011]
Grace in Sand - Grace in Sand  [Grace in Sand  2011]

Titolo impegnativo e bellissima copertina: l'intento del quartettto ferrarese è opporsi in qualche modo alla prevedibilità, in fondo evocata dal loro stesso nome. Le dodici battute rientrano senza dubbio nel linguaggio dei Bluesmen, giunti con Rebels al quarto lavoro sostenuto dall'Associazione Musicisti di Ferrara, ma si rimescolano con pulsioni che vanno ad abbracciare altri stili dell'american music, flirtando con il country, il soul, persino il border messicano. Le intenzioni sono ottime e le qualità strumentali del quartetto, con le chitarre di Roberto Formignani e le tastiera di Massimo Mantovani in netta evidenza, non sono messe in discussione: manca semmai un certa tenuta generale del repertorio, con l'inserimento di troppi strumentali "di maniera" che rendono la scaletta di Rebels altalenante nei risultati. La lunga collaborazione al fianco del songwriter Dirk Hamilton ha prodotto i suoi frutti, confermando la presenza di quest'ultimo in diversi episodi dell'album, anche in veste di co-autore: tra questi ottima la partenza con Where Are All the Rebels? galoppante country rock dal passo western con un impeccabile lavorio di Formignani alla sei corde; più prevedibili invece la ballata slow blues The Collector e l'acceso southern rock di Automation Town (sferzante e rocciosa ai limiti dell'hard) e Baby Take a U-Ey, solcata da una feroce chitarra slide, le quali tuttavia nell'insieme contribuiscono ai cambiamenti di umore del disco, mostrando l'eclettismo della band nel maneggiare i generi. Dove si resta più confusi è nella presenza di un banale rock'n'roll quale Slow Down Bob, firmata dal solo Hamilton e da lui stesso interpretata. Presenza costante la voce di quest'ultimo, a sopperire probabilmente la tendenza dei Bluemen per la componente strumentale. Come anticipato Rebels si nutre di diversi momenti esclusivamente musicali: se Ten Miles to Mexico è attraversata da un dolce ricamo spanish della chitarra, degno del Ry Cooder di frontiera, il soffuso blues jazzato di Elegant Blues o la sbuffante marcetta country elettrica di Canyon Riders suonano per lo più come gradevoli esercizi di stile. Occorre concentrarsi con più attenzione sul songwriting. (  6.5)

www.thebluesmen.it

Ancora all'insegna dell'autoproduzione, nel personale studio mobile della band, i liguri Le Trois Tetons approdano al terzo lavoro confermando la cifra stilistica che il precedente A Pack of Lies ci aveva segnalato. La formula mantiene dunque quello strato di "sporcizia" e sonorità d'istinto che contraddistingue l'ispirazione del gruppo, chiaramente legato ad un rock'n'roll dalla matrice "settantesca", con sentori blues e qualche seduzione psichedelica. I Rolling Stones vengono naturalmente citati come stelle polari, anche dagli stessi Le Trois Tetons, ma navighiamo in fondo in un grande mare di suggestioni che ripercorrono la strada maestra del genere, dai sixties in poi: The Ghost of My mother, con un'armonica ad intrecciarsi con gli accordi bluesy delle chitarre, richiama persino passaggi degni del suono alcolico dei Green on red, Beaujolais and Sufferings si apre con un pulsante basso dalla trame new wave trasformandosi in un'ariosa ballata rock, mentre episodi quali Waiting e No Scars puntano decisamente alla radice rock blues, quasi un omaggio al pub rock inglese dei tempi gloriosi. I tentativi più coraggiosi, seppure non tutti pienamente riusciti, di Dangereyes, arrivano nella coda finale, tra la voce filtrata e l'ambientazione tipicamente psichedelica evocata da Nightlife (Followed by Shadows) ma soprattuto con il frutto migliore del disco, Don't Trust the Mirror, trame elettro-acustiche e una palpabile tensione. Fuori da qualsiasi gioco delle mode, outsiders per vocazione sin dal curioso nome, il pur grezzo suono de Le Trois Tetons non si regge certo per la sua originalità, ma per il retaggio di storia e passione che riesce a evocare. (  6.5)

www.3tetons.it

Su sentieri più acustici, di chiara ispirazione roots e vagamente "desertici" si incamminano i milanesi Grace in Sand, suggestivo nome che evoca immediatamente un preciso filone della tradizione americana. Anche la copertina e il suo paesaggio sfumato e onirico sembra suggerire tale percorso: il breve strumentale 27# riflette strade polverose nei riverberi della chitarra di Rino Villano, ma è solo una delle escursioni della band nei territori di certo desert sound alla Calexico, ripreso con più insistenza proprio nella title track, che ospita anche la tromba di Francesco Piras. Per il resto del viaggio siamo trasportati in ambientazioni più rurali, gentilezzze country rock e rustici sapori blues da portico che fanno della sottrazione, del suono roots la loro ragione d'essere, sempre prestando attenzione però alla limpida qualità dell'incisione. Il motivo retrò che accompagna Jazz in Sun è il campanello che annuncia l'anima più sincera dei Grace in Sand. Sulla scia old time di queste melodie si accodano East Circus, lo sbuffante e primordiale rockabilly di Cherry in a Bottle, la ballata bluesy Half Past 8 e il più colorato apporto ritmico di About a Trip, con tonalità da border music. Se questa manciata di brani rappresenta l'aspetto più tradizionale della band (il trio è completato da Enri Castello al basso e Toni Palmitesta allla batteria), sull'altro versante si fanno notare brani dal tessuto più melodico e vagamente west coast (Flower in a Drop, Back Door), che forse avrebbero richiesto una maggiore convinzione in fase di arrangiamento (Anyway chiude con passo elettrico, ma pare un po' smorzata). A tratti l'interpretazione di Villano appare infatti eccessivamente frenata, una soluzione che può funzionare soltanto in alcuni frangenti del disco. Ci sono comunque buoni spunti e qualità tecniche da cui partire per allargare le ambizioni dei Grace in Sand. (  6.5)
(Fabio Cerbone)

www.myspace.com/graceinsand


<Credits>