Fossimo nell’era classica del vinile, succederebbe
che, tornando a casa, metteremmo il disco sul piatto: un “colpetto”
e via, in moto quel magico cerchio nero. Si trattasse, nello specifico,
di questo recente Henry Carpaneto, verremmo investiti da
Baby’s Got It, un dì nelle mani di Ike Turner, shuffle
dal ritmo irresistibile, dominato da travolgenti fraseggi pianistici,
sintesi del boogie di miglior fattura. C’è di che restare col fiato
corto: pensare che il disco si intitola Pianissimo. A
sei anni dal suo esordio, Voodoo Boogie del 2014, il pianista
ligure esce con un nuovo progetto, dal titolo quanto mai simbolico e
intelligente. Già l’opera prima si distingueva per la ricchezza stilistica,
da cui tutte le possibili sfumature dal blues al funk a quel buon r&b
tinto di rock’n’roll, oltre che per la presenza di musicisti come il
compianto Bryan Lee (ripescare e ascoltare), Otis Grand (che ha definito
Henry come “il miglior pianista europeo”) e il batterista Tony Coleman,
già al servizio di B.B. King. Da dire che Henry ha intrecciato il suo
percorso artistico con i più bei nomi del blues nazionale e internazionale.
Pianissimo, dodici brani di cui ben nove originali, è una conferma di
quell’eccellente standard, e già basterebbe il menzionato opener per
rendersi conto. Ritroviamo il grande Coleman, una validissima sezione
fiati registrata a Nashville, potente e discreta al tempo stesso (Varney
Green, Rod Allen, Freddie Holt e Josh Harner) e il basso sostenuto di
Pietro Martinelli. Oltre a ciò, ospiti come l’indimenticato Lucky
Peterson, in veste di chitarrista per un altro magniloquente shuffle,
Strong Woman, e Waldo Weathers (ex-James
Brown), il quale presta il suo sax (tenore e baritono) in occasione
di Cold Duck Time, più sospesa e marcatamente funky rispetto
all’originale di Eddie Harris. Ma “pianissimo” è anche leggibile come
un riferimento diretto allo strumento, alle influenze e alle passioni
che fanno parte del bagaglio dell’artista, nonché un voler sottolineare
alcune atmosfere che caratterizzano gli episodi più tenui, quali la
raffinata Empty, jazz blues dall’interessante svolgimento armonico,
la title–track, o gli ottimi slow My Kinda Slow, ricco di quegli
intervalli e di quei “patterns discendenti” tanto cari a Ray Charles
e ai pianisti della “Crescent city” e I’ll Be There, brano in
minore dalle venature soul, impreziosito dall’Hammond e da un bellissimo
solo di sax.
Il resto, come dicevamo, spazia per tutte le aree possibili, dal rhythm
and blues doppiato di Rolling Circle, alla personale rilettura
di Moanin’ (Bobby Timmons), alla sorniona Tumbling, mid
tempo dall’irresistibile beat. Fino a Nola
(Paolo Maffi e Stefano Bergamaschi ai fiati), evidente omaggio a New
Orleans, la quale merita ancora menzione a parte per l’eccellente prestazione
pianistica, tale da includere, come vuole la tradizione, tutti i migliori
ingredienti della musica afroamericana. Ottimo.