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  Henry Carpaneto
Pianissimo
[Orange Home Records 2020]

Sulla rete: orangehomerecords.com

File Under: piano blues


di Roberto Giuli (10/02/2021)

Fossimo nell’era classica del vinile, succederebbe che, tornando a casa, metteremmo il disco sul piatto: un “colpetto” e via, in moto quel magico cerchio nero. Si trattasse, nello specifico, di questo recente Henry Carpaneto, verremmo investiti da Baby’s Got It, un dì nelle mani di Ike Turner, shuffle dal ritmo irresistibile, dominato da travolgenti fraseggi pianistici, sintesi del boogie di miglior fattura. C’è di che restare col fiato corto: pensare che il disco si intitola Pianissimo. A sei anni dal suo esordio, Voodoo Boogie del 2014, il pianista ligure esce con un nuovo progetto, dal titolo quanto mai simbolico e intelligente. Già l’opera prima si distingueva per la ricchezza stilistica, da cui tutte le possibili sfumature dal blues al funk a quel buon r&b tinto di rock’n’roll, oltre che per la presenza di musicisti come il compianto Bryan Lee (ripescare e ascoltare), Otis Grand (che ha definito Henry come “il miglior pianista europeo”) e il batterista Tony Coleman, già al servizio di B.B. King. Da dire che Henry ha intrecciato il suo percorso artistico con i più bei nomi del blues nazionale e internazionale.

Pianissimo, dodici brani di cui ben nove originali, è una conferma di quell’eccellente standard, e già basterebbe il menzionato opener per rendersi conto. Ritroviamo il grande Coleman, una validissima sezione fiati registrata a Nashville, potente e discreta al tempo stesso (Varney Green, Rod Allen, Freddie Holt e Josh Harner) e il basso sostenuto di Pietro Martinelli. Oltre a ciò, ospiti come l’indimenticato Lucky Peterson, in veste di chitarrista per un altro magniloquente shuffle, Strong Woman, e Waldo Weathers (ex-James Brown), il quale presta il suo sax (tenore e baritono) in occasione di Cold Duck Time, più sospesa e marcatamente funky rispetto all’originale di Eddie Harris. Ma “pianissimo” è anche leggibile come un riferimento diretto allo strumento, alle influenze e alle passioni che fanno parte del bagaglio dell’artista, nonché un voler sottolineare alcune atmosfere che caratterizzano gli episodi più tenui, quali la raffinata Empty, jazz blues dall’interessante svolgimento armonico, la title–track, o gli ottimi slow My Kinda Slow, ricco di quegli intervalli e di quei “patterns discendenti” tanto cari a Ray Charles e ai pianisti della “Crescent city” e I’ll Be There, brano in minore dalle venature soul, impreziosito dall’Hammond e da un bellissimo solo di sax.

Il resto, come dicevamo, spazia per tutte le aree possibili, dal rhythm and blues doppiato di Rolling Circle, alla personale rilettura di Moanin’ (Bobby Timmons), alla sorniona Tumbling, mid tempo dall’irresistibile beat. Fino a Nola (Paolo Maffi e Stefano Bergamaschi ai fiati), evidente omaggio a New Orleans, la quale merita ancora menzione a parte per l’eccellente prestazione pianistica, tale da includere, come vuole la tradizione, tutti i migliori ingredienti della musica afroamericana. Ottimo.


    

 


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