Andrea Cassese
La minoranza
[Seltz Recordz 2019]


File Under: Canzoni dal lungomare

facebook.com/SeltzRecordz

di Nicola Gervasini

Non saprei più bene indicare il confine tra canzone d’autore e canzone indie in Italia, ma potrebbe non avere troppa importanza quando ci si trova in mano un prodotto di grande qualità come questo La Minoranza di Andrea Cassese. Undici brani che cercano la ballata soffice, prettamente acustica nell’anima, ma ben elaborata negli arrangiamenti. Canzoni che trovano il cantautore napoletano ulteriormente maturato rispetto al suo esordio Oltre gli specchi del 2015, con testi che parlano delle sue origini (Lungomare) così come della difficoltà a mantenere rapporti sentimentali nel tempo (Candele) o riflessioni sul valore delle parole nei moderni social (Potere di Abuso). Il tono si fa più rauco solo in Prospettiva Bidimensionale, dove si nota la presenza di Cesare Basile alla voce e basso, un brano sulla perdita della memoria storica che porta alla bella e decisamente “Battistiana” title-track, discorso sull’omologazione anticipato dall’inno alla speranza “nonostante tutto” di Non Luogo. Speranza che quindi si trasforma in una sospensione di tutto in Nell’Attesa, ispirata da una frase del Nanni Moretti di Ecce Bombo, seguita da una Meritocrazia che riflette su come il significato di certe parole perda la propria valenza positiva nel momento in cui si scontra con la fredda realtà di un mondo che ragiona solo per schemi economici. La cavalcata quasi country-western di La forma dell’Immagine omaggia invece l’arte pittorica di Giorgio Morandi, mentre si finisce con ISL (acronimo di International Sign Language, riflessione sul linguaggio) e Tic, che chiude il cerchio del disco con il profumo di mare che aveva aperto il tutto. Consigliato.


 


Emanuele De Francesco
Lettere al neon
[Sciopero records 2019]


File Under: rock d'autore

facebook.com/Scioperorecords

di Fabio Cerbone

C'è ancora spazio per una canzone d'autore che suoni autenticamente pop rock e si presenti classica senza per questo dover sottostare all'idea un po' evanescente del gusto "indie" di queste stagioni. Lo dimostra il lavoro defilato di Emanuele De Francesco, che rompe un silenzio durato qualche anno, dopo l'interessante esordio di In Quieta Mente, presentandosi più maturo e personale in queste Lettere al neon. Sono otto lettere-canzoni dai toni bluastri, spesso attraversate da una malinconia latente, una tensione un po' inquieta tra buio e luce, che si riflette nei testi, romantici ma mai banali quando si tratta di parlare d'amore o persino di assumere un tono di maggiore critica sociale (la dura e spietata Televisione). Come si anticipava, il suono di De Francesco non teme di presentarsi fuori tempo massimo, rock d'autore si sarebbe detto una volta, senza apparire per questo presuntuosi: sono queste le sensazioni che sprigionano canzoni con un piglio anche fortemente melodico come Vivo, ballate elettriche che non rinnegano la ricerca del gancio pop, come in Irene nel vuoto o Tutto ha un nome?, con la presenza delle chitarre di Moreno Zaghi, ex Settore Out come Evasio Muraro (qui al basso e alla chitarra acustica), entrambi coinvolti nelle incisioni, curate da Lele Battista (qualche colpo di synth mai invadente, oltre al pianoforte). Semplice passeggero smuove sensazioni alternative rock e una pasta sonora un po' grunge, Chiaroscuro possiede il passo di certa canzone italiana anni Ottanta e insieme alla citata Vivo, se ci fosse ancora del buon gusto in giro, potrebbe anche ottenere passaggi radiofonici, mentre la delicatezza un poco rarefatta di In silenzio ricorda lontanamente, anche per alcune sfumature vocali, la lezione di Franco Battiato.


     


Ben Slavin
The Pines
[Apogeo records 2018]


File Under: Ita-folk d’oltreoceano

apogeorecords.it

di Nicola Gervasini

Il Made in Italy riferito ad un cantautore americano può suonare fuorviante, ma Ben Slavin vive tra Napoli e Milano da più di vent’anni, e qui da noi ha sviluppato la sua carriera discografica, per cui possiamo ormai considerarlo a tutti gli effetti un connazionale anche artisticamente. I suoi primi passi discografici li ha mossi con i The March, duo composto con la ex Soon Odette Di Maio (presente anche qui ai cori), poi dal 2014 si è proposto in solitaria con l’esordio Palepolis, disco dedicato a Napoli. The Pines è il suo secondo album, uscito già sul finire del 2018, ma vale la pena recuperarlo, perché ci offre un autore decisamente capace di coniugare grammatica folk con quel tocco di follia tipica di un certo cantautorato anglofono dei primi anni settanta. Lo dimostra subito con l’oscuro organo iniziale di To Wait My Love che si sviluppa poi in una bellissima ballata da vero songwriter anni 70, o con una On Washington Square che la segue con un piglio morbido alla Ron Sexsmith. Le canzoni sono tutte prettamente acustiche, con l’aggiunta dei vari strumenti suonati dal produttore Andrea Faccioli (sentito anche nei dischi di Le Luci della Centrale Elettrica e Cisco), e tutte con uno stile decisamente old-style come l’evocativa Ode To Clitumnus o il fast-folk di Ordinary Builds. Notevoli le due title-track, sviluppate in due tempi, con il bellissimo crescendo di Barnegat e la più complessa Masoleum, I toni si fanno dark nei due lunghi brani posti nel finale (Leave e Lithograph Train), degni del Roy Harper più sperimentale e allucinato, separate solo dai due minuti di Cetara, unico brano cantano in un italiano che non ha perso l’accento straniero e caratterizzato dai vocalizzi della Di Maio. Da seguire.


 


The High Jackers
Da Bomb
[Music Force/ Toks 2019]


File Under: Da Soul

musicforce.it

di Nicola Gervasini

Capita che un disco moderno possa farti ricordare di un vecchio disco che avevi sepolto nella memoria. Ecco, questo divertentissimo Da Bomb dei friulani The High Jackers mi ha portato a rimettere nel lettore Seriouslessness, album dei Creeps del 1993. Non so chi se lo ricorda, ma era un fantastico mix di musica garage, soul e gospel music che non trovò però troppa fortuna. Nel 2019 la proposta degli High Jackers affonda le proprie radici in quel sound, facendo sicuramente tesoro di tutto il new-soul revival di questi anni 2000 (in particolare, visto il tono decisamente rock di alcuni pezzi, all’esperienza dei Black Joe Lewis & The Honeybears). La band è una creazione di Mr. Steve (Stefano Taboga), già cantante e bassista dei The Mad Scramble, intorno a cui si muovono una lunga lista di musicisti (tutti per l’occasione ribattezzati Mister+Nome) in un tripudio di fiati, organi hammond e chitarre ben in evidenza. Provate a stare fermi con la sequenza delle prime sei canzoni (spiccano Burgers and Beers, Going Crazy e Stunned and Dizzy), in cui Taboga dimostra buone doti canore, produttive e anche di “feeling soul”. Una prima parte perfetta che lo vede più a suo agio quando c’è ritmo e sudore, piuttosto che nei sette minuti della soul-ballad Hush Now che tagliano in due il disco, o nello strano funky di Live It. Molto bella The Wrong Side Of The Street, ballata urbana con un bel finale di slide-guitar che anticipa il finale tutto ritmo, rap e giro di basso pulsante di You Make Me Mad e il riff hard-blues di This is The Sound (Da Bomb). Disco ben fatto e con un live sound incisivo che lo rende anche rappresentativo di quello che potreste aspettarvi se li trovaste in azione su un palco.


 

 


<Credits>