Non saprei più bene indicare
il confine tra canzone d’autore e canzone indie in Italia, ma
potrebbe non avere troppa importanza quando ci si trova in mano
un prodotto di grande qualità come questo La Minoranza di
Andrea Cassese. Undici brani che cercano la ballata soffice,
prettamente acustica nell’anima, ma ben elaborata negli arrangiamenti.
Canzoni che trovano il cantautore napoletano ulteriormente maturato
rispetto al suo esordio Oltre gli specchi del 2015, con
testi che parlano delle sue origini (Lungomare) così come
della difficoltà a mantenere rapporti sentimentali nel tempo (Candele)
o riflessioni sul valore delle parole nei moderni social (Potere
di Abuso). Il tono si fa più rauco solo in Prospettiva
Bidimensionale, dove si nota la presenza di Cesare Basile
alla voce e basso, un brano sulla perdita della memoria storica
che porta alla bella e decisamente “Battistiana” title-track,
discorso sull’omologazione anticipato dall’inno alla speranza
“nonostante tutto” di Non Luogo. Speranza che quindi si
trasforma in una sospensione di tutto in Nell’Attesa, ispirata
da una frase del Nanni Moretti di Ecce Bombo, seguita da una Meritocrazia
che riflette su come il significato di certe parole perda la propria
valenza positiva nel momento in cui si scontra con la fredda realtà
di un mondo che ragiona solo per schemi economici. La cavalcata
quasi country-western di La forma dell’Immagine omaggia
invece l’arte pittorica di Giorgio Morandi, mentre si finisce
con ISL (acronimo di International Sign Language, riflessione
sul linguaggio) e Tic, che chiude il cerchio del disco
con il profumo di mare che aveva aperto il tutto. Consigliato.
Emanuele
De Francesco Lettere
al neon [Sciopero
records 2019]
C'è ancora spazio per una canzone
d'autore che suoni autenticamente pop rock e si presenti classica
senza per questo dover sottostare all'idea un po' evanescente
del gusto "indie" di queste stagioni. Lo dimostra il
lavoro defilato di Emanuele De Francesco, che rompe un
silenzio durato qualche anno, dopo l'interessante esordio di In
Quieta Mente, presentandosi più maturo e personale
in queste Lettere al neon. Sono otto lettere-canzoni
dai toni bluastri, spesso attraversate da una malinconia latente,
una tensione un po' inquieta tra buio e luce, che si riflette
nei testi, romantici ma mai banali quando si tratta di parlare
d'amore o persino di assumere un tono di maggiore critica sociale
(la dura e spietata Televisione). Come si anticipava, il
suono di De Francesco non teme di presentarsi fuori tempo massimo,
rock d'autore si sarebbe detto una volta, senza apparire per questo
presuntuosi: sono queste le sensazioni che sprigionano canzoni
con un piglio anche fortemente melodico come Vivo, ballate
elettriche che non rinnegano la ricerca del gancio pop, come in
Irene nel vuoto o Tutto ha un nome?, con la presenza
delle chitarre di Moreno Zaghi, ex Settore Out come Evasio Muraro
(qui al basso e alla chitarra acustica), entrambi coinvolti nelle
incisioni, curate da Lele Battista (qualche colpo di synth mai
invadente, oltre al pianoforte). Semplice passeggero smuove
sensazioni alternative rock e una pasta sonora un po' grunge,
Chiaroscuro possiede il passo di certa canzone italiana
anni Ottanta e insieme alla citata Vivo, se ci fosse ancora
del buon gusto in giro, potrebbe anche ottenere passaggi radiofonici,
mentre la delicatezza un poco rarefatta di In silenzio
ricorda lontanamente, anche per alcune sfumature vocali, la lezione
di Franco Battiato.
Il Made in Italy riferito ad
un cantautore americano può suonare fuorviante, ma Ben Slavin
vive tra Napoli e Milano da più di vent’anni, e qui da noi
ha sviluppato la sua carriera discografica, per cui possiamo ormai
considerarlo a tutti gli effetti un connazionale anche artisticamente.
I suoi primi passi discografici li ha mossi con i The March, duo
composto con la ex Soon Odette Di Maio (presente anche qui ai
cori), poi dal 2014 si è proposto in solitaria con l’esordio Palepolis,
disco dedicato a Napoli. The Pines è il suo secondo
album, uscito già sul finire del 2018, ma vale la pena recuperarlo,
perché ci offre un autore decisamente capace di coniugare grammatica
folk con quel tocco di follia tipica di un certo cantautorato
anglofono dei primi anni settanta. Lo dimostra subito con l’oscuro
organo iniziale di To Wait My Love che si sviluppa poi
in una bellissima ballata da vero songwriter anni 70, o con una
On Washington Square che la segue con un piglio morbido
alla Ron Sexsmith. Le canzoni sono tutte prettamente acustiche,
con l’aggiunta dei vari strumenti suonati dal produttore Andrea
Faccioli (sentito anche nei dischi di Le Luci della Centrale Elettrica
e Cisco), e tutte con uno stile decisamente old-style come l’evocativa
Ode To Clitumnus o il fast-folk di Ordinary Builds.
Notevoli le due title-track, sviluppate in due tempi, con il bellissimo
crescendo di Barnegat e la più complessa Masoleum,
I toni si fanno dark nei due lunghi brani posti nel finale (Leave
e Lithograph Train), degni del Roy Harper più sperimentale
e allucinato, separate solo dai due minuti di Cetara, unico
brano cantano in un italiano che non ha perso l’accento straniero
e caratterizzato dai vocalizzi della Di Maio. Da seguire.
Capita che un disco moderno possa farti ricordare
di un vecchio disco che avevi sepolto nella memoria. Ecco, questo
divertentissimo Da Bomb dei friulani The High
Jackers mi ha portato a rimettere nel lettore Seriouslessness,
album dei Creeps del 1993. Non so chi se lo ricorda, ma era un
fantastico mix di musica garage, soul e gospel music che non trovò
però troppa fortuna. Nel 2019 la proposta degli High Jackers affonda
le proprie radici in quel sound, facendo sicuramente tesoro di
tutto il new-soul revival di questi anni 2000 (in particolare,
visto il tono decisamente rock di alcuni pezzi, all’esperienza
dei Black Joe Lewis & The Honeybears). La band è una creazione
di Mr. Steve (Stefano Taboga), già cantante e bassista dei The
Mad Scramble, intorno a cui si muovono una lunga lista di musicisti
(tutti per l’occasione ribattezzati Mister+Nome) in un tripudio
di fiati, organi hammond e chitarre ben in evidenza. Provate a
stare fermi con la sequenza delle prime sei canzoni (spiccano
Burgers and Beers, Going Crazy e Stunned and
Dizzy), in cui Taboga dimostra buone doti canore, produttive
e anche di “feeling soul”. Una prima parte perfetta che lo vede
più a suo agio quando c’è ritmo e sudore, piuttosto che nei sette
minuti della soul-ballad Hush Now che tagliano in due il
disco, o nello strano funky di Live It. Molto bella The
Wrong Side Of The Street, ballata urbana con un bel finale
di slide-guitar che anticipa il finale tutto ritmo, rap e giro
di basso pulsante di You Make Me Mad e il riff hard-blues
di This is The Sound (Da Bomb). Disco ben fatto e con un
live sound incisivo che lo rende anche rappresentativo di quello
che potreste aspettarvi se li trovaste in azione su un palco.