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  Leandro Diana
Dirty Hands and Gravel Roads
[Leandro Diana 2020]

Sulla rete: leandrodiana.bandcamp.com

File Under: heartland rock


di Fabio Cerbone (14/12/2020)

Tracce di rock da strada maestra, chitarre elettriche dall'anima sudista e dalla rabbia hard blues, un buon senso melodico che guarda alla tradizione country, soprattutto texana: non ci sorprende più constatare la capacità di alcuni musicisti italiani nel fare proprie queste coordinate sonore e rileggerle a migliaia di chilometri di distanza. Musicista di origini siciliane e di adozione milanese, Leandro Diana sceglie l’heartland rock americano più classico per raccontare le sue storie universali (ma con uno sguardo anche al contesto della famiglia e degli affetti), fatte di desiderio di libertà e affermazione individuale, di pagine da voltare e scelte coraggiose da prendere in un mondo che non fa sconti. Sono alcune delle suggestioni che attraversano gli undici episodi di Dirty Hands an Gravel Roads, album che arriva a sette anni dal primo tentativo solista, Postcards from Nowhere, nel frattempo impiegati a farsi le spalle larghe sui palchi, collaborando anche con alcuni noti musicisti dell’area blues e rock, milanese e non solo, come Max Prandi, Ruben Minuto o Marco Limido.

L’esperienza gioca a favore, e nonostante la produzione in proprio ancora da assestare e una certa dose di autarchia nelle incisioni (Leandro Diana suona buona parte dell’album, affiancato in alcuni episodi da Deneb Bucella alla batteria e Giuseppe Diana al pianoforte e organo), il disco esprime una facilità di scrittura e una fedeltà ai modelli di riferimento che finisce spesso per essere un pregio e non una zavorra. Emergono due anime distinte in Dirty Hands an Gravel Roads e due possibilità nella rotta da seguire per lo stesso Leandro Diana: da una parte il rocker più acceso e il chitarrista che dalle radici blues approda alla grande stagione degli anni Settanta (Burn It All Down Again ne è un buon esempio), dall’altra l’autore che butta un’occhio all’Americana, alla tradizione dei songwriter e ricerca più l’anima della canzone. Inutile forse affermare che la seconda soluzione ci appare quella non solo più apprezzabile e meno scontata (Getaway e Nothing to Say si incartano un poco nella loro prevedibilità) ma anche quella dove la voce di Diana (chiara, diretta e completamente a suo agio) acquista maggiore autorevolezza.

Tutt’altro che trascurabili, sia detto, quegli episodi nei quali le due anime sembrano incontrarsi, dall’incipit sferzante di Changes alla rutilante ballad elettrica Just Be Gone, dove comincia a farsi spazio il ruolo essenziale del piano nella tenuta melodica di questi brani, fino ad azzeccare davvero una canzone fortunata con Another Gravel Road, ritornello killer che in un mondo alla rovescia, con una produzione più importante e magari un viaggio diretto negli States, farebbe scintille. Eppure Dirty Hands an Gravel Roads pare convincere soprattutto nella parte centrale, quando Leandro Diana imbastisce un trittico di ballate (Be Free, la cristallina Richie’s Song, One More Day Alive) che cuciono insieme vibrazioni elettro-acustiche e una predisposizione per quel romanticismo rock che qui rincorre la stella polare di giganti come John Mellencamp e Bob Seger, alla luce magari di quei cantori “minori” (Michael McDermott e Will Hoge sovvengono alla mente) che ne hanno proseguito il cammino.

Leandro Diana non avrà la fortuna di esibire il passaporto americano, ma dimostra di maneggiare la materia con la stessa dedizione: superate alcune naturali dipendenze dai propri eroi e prestando un occhio di riguardo alla parte d'autore, per così dire, del suo songwriting, potrebbe trovare presto la giusta sintesi musicale.


    

 


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