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  Paolo Bonfanti
Elastic Blues
[Rust records 2020]

Sulla rete: paolobonfanti.it

File Under: Sixty Years On


di Nicola Gervasini (06/01/2021)

L’autocelebrazione è un’arma a doppio taglio, dove il confine tra il fare, giustamente, i conti e i bilanci con la propria carriera, e il poco senso della giusta statura della propria arte, che sfocia facilmente nel ridicolo, non è mai troppo evidente, ma Paolo Bonfanti non è certo artista che rischia di sbagliare lato della strada. Anzi, sappiamo tutti quanto l’essere etichettato semplicemente come un bluesman italiano gli ha forse impedito di avere un seguito più ampio, in Italia ma anche a livello internazionale, dove i tanti artisti che lo hanno incontrato gli hanno subito riconosciuto la statura dei grandi.

In ogni caso, per i suoi 60 anni, Bonfanti ha voluto fare tutto da solo per confezionarsi la torta, candeline comprese, e ha costruito in piena pandemia questo Elastic Blues, sorta di libro di memorie, sia scritto di suo pugno con l’ironia che da sempre lo contraddistingue, sia suonato con gli amici di una lunga carriera. Il disco dura circa settanta minuti, ed è quello che meglio ci si poteva aspettare, cioè una sorta di condensato di tutto ciò che ha proposto nella sua carriera, dove il blues spesso è più un modo di approcciarsi che non il vero e proprio stile proposto. “Il blues, come l’oro, è duttile e malleabile, come il cervello e la coscienza dovrebbero essere, è elastico” specifica egli stesso nel retro del libro. Lo chiarisce bene il lungo tiratissimo strumentale Alt posto in apertura, che presenta sia la sua più fedele backing band attuale (Nicola Bruno al basso, Alessandro Pelle alla batteria e il fisarmonicista Roberto Bongianino), sia già i primi ospiti (alcuni membri degli Yo Yo Mundi).

Ma altrove, se il blues resta la casa a cui tornare (sia esso acustico come In Love With The Girl o elettrico come We’re Still Around - in cui riunisce la vecchia line-up dei Big Fat Mama - o una classicissima I Can’t Find Myself con Fabio Treves), Bonfanti spazia tra brani in dialetto (Fin De Zugno), cover eseguite con spirito da garage band (Haze, un pezzo di Bob Weir dei Grateful Dead pubblicato nel 1981 con la sigla Bobby & The Midnites), strumentali funky come Unnecessary Activities o A O Canto, dove sono i fiati dei Fratelli Lambretta Ska Jazz o il violino del PFM Lucio Fabbri a dare spettacolo. Da altre parti Paolo si diverte anche con il country di Heartache By Heartache, lascia libera l’elettrica in Don’t Complain, si ferma a riflettere nella dolce ballata acustica Hypnosis, porta i Little Feat in Liguria con Sciorbì/Sciuscià, si lascia andare alle pigre improvvisazioni della title-track.

La bella chiusura di Where Do We Go dice tutto sul clima di incertezza in cui è nato il progetto, prima che la “slight return” di Unnecessary Activities (stavolta cantata) ponga fine ad un disco inevitabilmente vario e poco uniforme, in cui davvero potrete trovare tutto il Bonfanti di questi quasi quarant’anni di carriera, con una confezione lussuosa e piena dei racconti di una vita da musicista.


    

 


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