L’autocelebrazione è un’arma a doppio taglio,
dove il confine tra il fare, giustamente, i conti e i bilanci con la
propria carriera, e il poco senso della giusta statura della propria
arte, che sfocia facilmente nel ridicolo, non è mai troppo evidente,
ma Paolo Bonfanti non è certo artista che rischia di sbagliare
lato della strada. Anzi, sappiamo tutti quanto l’essere etichettato
semplicemente come un bluesman italiano gli ha forse impedito di avere
un seguito più ampio, in Italia ma anche a livello internazionale, dove
i tanti artisti che lo hanno incontrato gli hanno subito riconosciuto
la statura dei grandi.
In ogni caso, per i suoi 60 anni, Bonfanti ha voluto fare tutto da solo
per confezionarsi la torta, candeline comprese, e ha costruito in piena
pandemia questo Elastic Blues, sorta di libro di memorie,
sia scritto di suo pugno con l’ironia che da sempre lo contraddistingue,
sia suonato con gli amici di una lunga carriera. Il disco dura circa
settanta minuti, ed è quello che meglio ci si poteva aspettare, cioè
una sorta di condensato di tutto ciò che ha proposto nella sua
carriera, dove il blues spesso è più un modo di approcciarsi che non
il vero e proprio stile proposto. “Il blues, come l’oro, è duttile
e malleabile, come il cervello e la coscienza dovrebbero essere, è elastico”
specifica egli stesso nel retro del libro. Lo chiarisce bene il lungo
tiratissimo strumentale Alt posto
in apertura, che presenta sia la sua più fedele backing band attuale
(Nicola Bruno al basso, Alessandro Pelle alla batteria e il fisarmonicista Roberto
Bongianino), sia già i primi ospiti (alcuni membri degli Yo Yo Mundi).
Ma altrove, se il blues resta la casa a cui tornare (sia esso acustico
come In Love With The Girl o elettrico come We’re Still Around
- in cui riunisce la vecchia line-up dei Big Fat Mama - o una classicissima
I Can’t Find Myself con Fabio Treves), Bonfanti spazia tra brani
in dialetto (Fin De Zugno), cover
eseguite con spirito da garage band (Haze, un pezzo di Bob Weir
dei Grateful Dead pubblicato nel 1981 con la sigla Bobby & The Midnites),
strumentali funky come Unnecessary Activities o A O Canto,
dove sono i fiati dei Fratelli Lambretta Ska Jazz o il violino del PFM
Lucio Fabbri a dare spettacolo. Da altre parti Paolo si diverte anche
con il country di Heartache By Heartache, lascia libera l’elettrica
in Don’t Complain, si ferma a riflettere nella dolce ballata
acustica Hypnosis, porta i Little Feat in Liguria con Sciorbì/Sciuscià,
si lascia andare alle pigre improvvisazioni della title-track.
La bella chiusura di Where Do We Go
dice tutto sul clima di incertezza in cui è nato il progetto, prima
che la “slight return” di Unnecessary Activities (stavolta cantata)
ponga fine ad un disco inevitabilmente vario e poco uniforme, in cui
davvero potrete trovare tutto il Bonfanti di questi quasi quarant’anni
di carriera, con una confezione lussuosa e piena dei racconti di una
vita da musicista.