:: IL LIBRO, le recensione

Fabio Cerbone
Levelland
Nella periferia del rock americano


[Pacini editore/ Fanclub]
pp. 184


La strada, l'orizzonte irraggiungibile e la possibilità dell'eterno viaggio in quegli spazi infiniti che noi italiani non potremmo mai sperimentare (anche solo per banali limiti geografici): da sempre è questo mito americano, che fa della mobilità una filosofia di vita - ancor prima che una metafora dell'esistenza - ad aver stuzzicato anche la nostra cultura. Levelland di Fabio Cerbone è in questo senso un libro coraggioso, perché racconta di quella volta in cui la cultura americana si è invece fatta piccola, statica, e - usando un termine che è tutto nostro - "provinciale".

In altre parole un mondo spogliato di qualsiasi fascinazione letteraria, se non quella dell'epica della sopravvivenza. Se John Mellencamp (ma prima e dopo di lui mille altri), aveva cantato delle "Small Town" americane come del punto di partenza per una fuga, i nuovi Bob Dylan di questa storia restano invece a Duluth e non approdano mai a New York, e le loro Highway 61 non vengono né percorse, né tantomeno rivisitate. Una storia yankee - dove sarebbe più facile citare Fogazzaro che Kerouac - meritava un'analisi approfondita, perché qui si parla degli Uncle Tupelo che "di fronte a sé hanno soltanto un orizzonte chiuso, fatto su misura dell'uomo comune di un America altrettanto comune" o dei Jayhawks, che vivono in una Minneapolis dove "altro che interminabili Interstate o dimenticate strade secondarie, la guida resta unicamente il Mississippi". Un modo di vivere integralmente la propria piccola realtà che John Steinbeck sintetizzò bene scrivendo che "un texano, fuori dal Texas, è uno straniero".

Levelland cerca le motivazioni che spinsero vent'anni fa dei ventenni della X-Generation ad affidarsi a quell'old time music che gli anni ottanta sembravano aver definitivamente sepolto. Non di fiera e patriottica esibizione delle proprie tradizioni si trattava, ma di tragica necessità di riempire lo spaventoso vuoto culturale lasciato dall'era degli yuppies e della "reaganomic" con l'unica espressione culturale a disposizione nella campagna americana. Lo stesso Ryan Adams spogliò quella scelta tradizionalista di qualsiasi vanità intellettuale o programmatica, quando cantò in Faithless Street dei Whiskeytown: "ho formato questa country-band, perché il punk è difficile da cantare".

Roots-music più per necessità che per passione dunque, per l'urgenza di uscire con la mente da quei "piccoli mondi antichi" americani creati dalla nuova Grande Depressione dei primi anni novanta. Questo libro è un viaggio in un non-viaggio, dove i personaggi non ci provano nemmeno a sognare la ribalta della grande città, e soprattutto dove è Cerbone stesso che deve muoversi, andando a scovare le loro storie di cittadina in cittadina, aiutandosi con vere cartine geografiche poste in calce ad ogni capitolo. Vicende musicali poco raccontate quelle degli eroi dell'alternative country: laddove il grunge di Seattle recuperava negli stessi anni i linguaggi del punk e dell'hard rock per raccontare la propria desolata esistenza, dei ragazzi persi nel "bel mezzo del nulla" recuperavano traditionals, Nashville e i suoni "roots". Un termine, quest'ultimo, che vi suonerà familiare se bazzicate spesso queste pagine, ma, come sottolinea Marco Denti nella prefazione al libro, roots vuol dire "radici, semi, e una totale indifferenza per i frutti". Perché mentre il grunge ha avuto le sue star e il suo grande momento mediatico, l'alternative-country è rimasto un fenomeno più sommerso, senza neppure un poeta maledetto da piangere, nonostante alcuni titoli qui trattati abbiano raggiunto anche vendite interessanti.

I grandi palcoscenici del rock si apriranno (senza neanche troppi clamori) solo anni dopo per Ryan Adams e Jeff Tweedy con i suoi Wilco, vale a dire gli unici due eroi della storia che ad un certo punto hanno deciso di scappare dalla periferia - sia artisticamente che fisicamente - alla ricerca di spazi più liberi. Levelland racconta il tutto sia con il piglio accessibile a tutti del romanzo storico, sia con quel taglio un po' specialistico che lo rende anche una valida guida all'ascolto, utile sia per chi già conosce anche i protagonisti più oscuri della vicenda, quanto ovviamente - e questa è forse la speranza/scommessa più grande - per le nuove generazioni. Non sta a noi dare un giudizio sul libro: Cerbone qui gioca in casa. Quello che ci preme sottolineare è come Levelland sia a tutti gli effetti il vero manifesto programmatico del sito Rootshighway, perché racchiude tutto l'amore per il "grande piccolo" che anima questa webzine, e perché definisce alla perfezione il termine "outsider" posto in copertina del libro.
E ovviamente anche perché racconta di una musica straordinaria.
(Nicola Gervasini)


   




Americana Motel: 15 mappe musicali per muoversi nella Levelland

a cura di Fabio Cerbone
 
A cura di Fabio Cerbone
  
Uncle Tupelo - Anodyne
(Sire/Reprise, 1993)
L'epitaffio e la sintesi: da una parte il fervore elettrico giovanile, dall'altra gli aromi delle radici. Registrato in Texas ma con il cuore nel Midwest, un disco che riassume un viaggio breve e intenso, mostrando già in divenire le due scritture divergenti di Jeff Tweedy e Jay Farrar.

> prova anche: Whipsaws - 60 Watt Avenue (Shut Eye, 2008)
  
Jayhawks - Hollywood Town Hall
(American, 1992)
Il migliore "compromesso" possibile per il nuovo rock delle radici: splendidamente melodici ma con un accento rurale inconfondibile, i Jayhawks esprimono l'aggiornamento della stagione country rock californiana, tra echi di Byrds, Neil Young e Gram Parsons, unendoli al battito elettrico della strada maestra della musica americana.

> prova anche: Bellwether - Bellwether (Bellwether, 2000)
  
Son Volt - Trace
(Warner Bros, 1995)
A suo modo la prosecuzione e la difesa dell'universo creato dagli Uncle Tupelo, seguendo l'aspra immagine di Jay Farrar, le sue ballate agresti intrise di sapori e rimpianti dal Midwest americano. I Son Volt diventano la bandiera di un suono e ne restano prigionieri loro malgrado, ma tutto è perfettamente allineato.

> prova anche: Black Eyed Dog - Black Eyed Dog (Hero rec. 1999)
  
Wilco - Being There
(Sire/Reprise, 1996)
Un bignami del rock delle radici che riassume le mille anime non solo dei Wilco, ma del movimento intero che andrà a rappresentare. Disco doppio, disordinato e per questo affascinante nel suo girovagare nella storia dell'american music. Ci sono i Creedence e i Beach Boys, i Sonic Youth e i Rolling Stones, tutti riuniti in un colpo solo.

> prova anche: Golden Smog - Weird Tales (Ryko, 1998)
  
Bottle Rockets - The Brooklyn Side
(Tag/Atlantic, 1995)
Il volto operaio dell'alternative country: garantiti dalla produzione di Eric Ambel, i Bottle Rockets applicano la loro filosofia di splendidi gregari del rock delle radici, mettendo in fila un micidiale juke box fatto della migliore tradizione stradaiola americana.

> prova anche: Backsliders - Throwin' Rocks at the Moon (Mammooth, 1996)
  
Blue Mountain - Dog Days
(Roadrunner, 1995)
Eric Ambel mette mano alla produzione garantendo un suono livido e diretto: è un'altra piccola gemma dalla provincia rock americana. I Blue Mountain sono l'anello di congiunzione tra la mountain music e il rinnovato southern rock, tra chitarre che virano al punk e una matrice blues rurale che mette insieme senza colpo ferire Skip James con l'alternative country.

> prova anche: Tarbox Ramblers - Tarbox Ramblers (Rounder, 2001)
  
Palace Music - Viva Last Blues
(Drag City, 1995)
Il senso di mistero e spiritualità che aleggia nella folk music prodotta tra i monti Appalachi incontra la filosofia dimessa del moderno rock indipendente. La malinconia di un folksinger vecchio stampo si trasforma allora in una serie di ballate spettrali, in un country rock imperfetto e arruffato, ma di fascino eterno.

> prova anche: Scud Mountain Boys - Massachusetts (Sub Pop, 1996)
  
Sixteen Horsepower - Sackcloth'n'Ashes
(A&M, 1995)
Una fragorosa esplosione di sacro e profano, un'anima gospel e un cuore nero fatto di un country blues tormentato. Il linguaggio dei Sixteen Horsepower è declamatorio, tuonante, si strugge tra sensi di colpa e richieste di redenzione, rinvigorendo una tradizione sepolta.

> prova anche: Willard Grant Conspiracy - Everything's Fine (Ryko, 2000)
  
Whiskeytown - Strangers Almanac
(Outpost/Geffen, 1997)
Il disco che cattura un momento irripetibile nella fulminea carriera dei Whiskeytown e al tempo stesso lo zenit del messaggio alternative country: ovverosia trent'anni di rock'n'roll americano sulla strada condensati da una giovane band magnificamente approssimativa, che dalla periferia scorge le luci della grande città.

> prova anche: The Pinetops - Above Ground and Vertical (Monolyth, 1998)
  
Handsome Family - Through the Trees
(Carrot Top/Rykodisc, 1998)
L'alternative country scende nelle tenebre e nei misteri del folclore americano: un country rock sbuffante, scheletrico, un voce antica e baritonale che di stende su storie che intrecciano amore e morte come in una favola un po' gotica.

> prova anche: Old Joe Clarks - Town of ten (Trocadero, 2003)
  
Calexico - The Black Light
(Quarterstick/City Slang, 1998)
La colonna sonora ideale per un viaggio ai confini della civiltà americana, The Black Light si mantiene in equilibrio lungo il border e suggestiona l'ascoltatore con un miscuglio di suoni e visioni da una terra desolata e misteriosa come il deserto: country&western, mariachi music e indie rock non sono mai stati così vicini.

> prova anche: The Volebeats - Solitude (Safety House, 1999)
  
Slobberbone - Everything You Thought Was Right Was Wrong Today
(New West, 2000)
Prodotti da Jim Dickinson presso gli studi Ardent di Memphis gli Slobberbone respirano miti e leggende del rock'n'roll cambiando volto rispetto al rozzo country punk degli esordi: il disco tocca tutte le corde della loro scrittura, saltando dall'impetuosità elettrica al folk di ascendenze irlandesi fino a quell'inconfondibile matrice country texana.

> prova anche: Old 97's - Too Far to Care (Elektra, 1997)
  
Drive-by Truckers - Southern Rock Opera
(SDR/Lost Highway, 2001)
Il nuovo rock sudista riflette sulla sua tragica storia e riparte da questa opera ambiziosa, architettata da Patterson Hood e Mike Cooley: doppio disco che contiene più anime in contraddizione tra loro, mostrando una band complessa e per nulla riconducibile a una copia del glorioso passato southern. Coabitano tanto i Lynyrd Skynyrd quanto il punk rock, Neil Young e i Replacements.

> prova anche: Go to Blazes - Any Time…Anywhere (Glitterhouse, 1994)
  
Lucero - Tennessee
(Madjack, 2002)
Loro si immaginano come i Pogues trapiantati nelle terre sudiste, ma l'effetto è piuttosto quello di una band cresciuta tra l'assalto punk e l'inquietudine dell'alternative rock degli anni novanta messa a confronto con le tradizioni locali. Ben Nichols urla i suoi tormenti e il suo dolore di ragazzo del sud su un letto di ballate bluastre.

> prova anche: Pawtuckets - Dogsboy Factotum (Madjack, 2000)
  

Richmond Fontaine - Post to Wire
(El Cortez, 2004)
Un altro disco con velleità da concept che si allarga a comprendere l'intera vita nel South West e il tentativo di un'improbabile fuga dal nulla americano: qualche scatto d'ira in più, un suono che rimanda spesso agli Uncle Tupelo, ma una cifra stilistica del tutto personale e una grandissima dote da scrittore di short stories per Willy Vlautin.

> prova anche: Giant Sand - Glum (Indigo, 1994)

 

 



<Credits>