JP Harris and The Tough Choices
Home Is Where the Hurt Is
[
Cow Island
2014]

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File Under: honky tonk world

di Davide Albini (10/11/2014)

Un barbone straripante, che sembra identificarlo come un autentico "hipster", tanto di moda ai nostri giorni, i tatuaggi che invadono il corpo, e che lo avvicinano di più alle sue ribelli radici sudiste (a 14 anni è scappato sulla strada), JP Harris inganna forse nell'immagine, ma non nel suono del nuovo Home Is Where the Hurt Is. "J.P. Harris plays Country Music" dicono le sue note biografiche e la precisazione credo sia sacrosanta, perché di questo stiamo parlando: country di origine controllata, come si suonava all'apice del suo splendore, direi con una chiara collocazione nell'epoca d'oro dell'honky tonk e del cosiddetto suono di Bakersfield, un po' Buck Owens, un po' George Jones e un pizzico di Texas ogni tanto fra le righe. D'altronde il ragazzo è nato a Montgomery, in Alabama, non un luogo qualunque: da quelle parti gira ancora il fantasma di Hank Williams e deve esserci qualcosa nell'aria per far sì che nel 2014 ci siano ancora giovani artisti interessati a mantenere viva questa tradizione.

Possiamo discutere se abbia senso o meno riprodurre fedelmente quel sound di cui sopra, ma la freschezza e la qualità musicale di Home Is Where the Heart Is depongono a favore dell'artista, un vero "neo-tradizionalista" potremmo definirlo, che segue le tracce di gente come Dwight Yoakam e Marty Stuart e soprattutto si affianca ad altri personaggi della nuova leva quali Sturgill Simpson, già ampiamente declamati su queste pagine, che stanno ridando spinta al genere. Il disco è il secondo in carriera, dopo quel I'll Keep Calling registrato a Nashville, che a suo tempo segnalai con altrettanto entusiasmo. Restiamo sulle stesse coordinate: dieci brani fieramente attaccati al passato, e proprio per questo vincenti, una raccolta "conservatrice" anche nella durata, quei trenta minuti che un tempo erano la prassi per un ottimo album di country music. Così è anche nel caso di Home Is Where the Hurt Is, prodotto con il chitarrista dei Tough Choices Adam Meisterhans e un manipolo di musicisti locali, poco avvezzi alle lusinghe del mainstream e molto concentrati sulla materia. Ci sono anche i camei di Nikki Lane, seconda voce femminile, e Chance McCoy degli Old Crow Medicine Show, segno che Harris si sta facendo strada sulla scena indipendente.

Non parlategli però di Americana, perché lui ci tiene al suo pedigree country e ha tutte le ragioni di questo mondo: la scopiettante apertura di Give a Little Lovin' e il suo piano boogie, il finale in odore di rockabillly di Young Women and Old Guitars (al sax l'ospite Steve Berlin), il classico honky tonk di A Breaking Heart, perso tra le leggende di George Jones e Ray Price, i colori del border che affiorano in South Oklahoma e Maria, le cadenzate Old Love Letters e Every Little Piece, infarcite di chitarroni dall'inconfondibile twang e spiritate pedal steel (Brett Resnick, elemento essenziale per ricreare le suggestioni retro-country del lavoro). È una festa vecchio stile e il divertimento è assicurato: One for Every Day potrebbe uscire da un jukebox dei primi anni sessanta, naturalmente dalle parti di Bakerfield, e l'acustica, pizzicata Truckstop Amphetamines ha un titolo che da solo vale la spesa. Conciso e spigliato: la "conservazione" ogni tanto è una parola positiva, credetemi.


   


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