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roots d'autore di
Marco Poggio (10/09/2014)
Songwriter
dalla spiccata versatilità compositiva, nonché polistrumentista di comprovata
bravura, con una predilezione particolare per le corde di vario genere, Hank
Shizzoe, al secolo Thomas Herb, giunge oggi a "tagliare" il ragguardevole
traguardo del ventennale di una carriera musicale sicuramente non avara di gratificazioni.
Tanto, infatti, il tempo trascorso dal suo esordio, avvenuto nel 1994 con il pregevole
Low Budget, a tutti gli effetti, nella sua variopinta eterogeneità, ideale manifesto
programmatico dello shizzoe-pensiero. Una deliziosa mistura tra anticaglie folk,
salmodianti blues prebellici e rusticità rootsy, divenuta ben presto la sua personale,
identificativa cifra stilistica, capace non solo di non risultare dispersiva,
né derivativa, nella sua multiformità di stili ed influenze, quanto al contrario
di conservare intatta, in tutti questi anni, la propria genuinità e freschezza.
Un canovaccio sonoro che, sottotraccia, ha quindi caratterizzato l'intera, ed
ormai corposa, discografia del chitarrista di Berna, e che ritroviamo, oggi, anche
tra i solchi di Songsmith.
Frutto di uno sforzo compositivo
congiunto con l'amico Stephan Eicher, che ne è anche il produttore, questo nuovo
parto shizzoeiano si mantiene infatti sulle medesime coordinate stilistiche dei
suoi predecessori, e come quest'ultimi trova la propria ragione d'essere in una
libera digressione, autoriale e interpretativa, tra i generi più diversi. Vi è
ampio spazio per l'animo cantautorale del nostro, come nella notturna ballata
pianistica He Is Not dove a risaltare è la
magnetica voce baritonale del titolare, così come nel duetto con l'altrettanto
fascinosa vocalità di Shirley Grimes, in una vibrante Light
Up tra gli evocativi fraseggi della lap steel e il suggestivo lavorio
melodico del bouzouki e del pianoforte. L'inquietante, funereo inizio di The
Ghost Of Pain, per sola voce, chitarra acustica e campane a morto, si stempera,
infine, nelle atmosfere dilatate di un country desertico d'ascendenza gelbiana,
tanto da ricordare in più di un frangente le ultime opere in studio del "Gigante
di Sabbia", così come una Planned Obsolescence dall'afflato cameristico,
complice la celesta di Reyn Ouwehand. Nell'opener Rocket
Ship, al contrario, sono avvertibili rimandi alla reiterate fascinazioni
ipnotiche del blues subsahariano dei Tinariwen, in una sorta di excursus sonoro
attraverso il deserto del Mali, fino a giungere, sulle note sintetiche di I
Talk Too Much, in vista delle luci urbane della Bamako dei Dirtmusic
di Chris Eckman e Hugo Race.
Di tutt'altro tenore sono invece l'acquerello
eelsiano, tra folk e pop d'autore, di Itune (Song For
Jony), così come la sagace equiparazione tra i tempi della Grande Crisi
e l'odierna situazione economica mondiale di una Like
It's 1929 di contagiosa effervescenza swing, seppur in parte inficiata
da orrendi inserti strumentali che paiono presi da qualche oscuro b-movie. Splendida
nella sua livida introspezione waitsiana è invece la title track, così come decisamente
riuscita è la riproposizione della Je Chante del Le Fou Chantant, Charles
Trenet, anglicizzata dal nostro in una I Sing
dalla trascinante enfasi cabarettistica. Un eclettico artigiano delle corde, Hank
Shizzoe, la cui certosina produzione discografica si è mantenuta, fin dall'esordio,
sempre su di livelli qualitativi alquanto elevati, come peraltro rimarcato anche
dall'odierno, riuscito Songsmith.