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americana songstress di
Marco Poggio (25/06/2014)
"I
couldn't write, I couldn't draw, I had no imagination or ability to reflect anymore",
così Gina Villalobos descrive il buio periodo di stasi creativa attraversato
all'indomani della pubblicazione del suo quarto album, Days
on Their Side. Un parto discografico che aveva lasciato come svuotata
la songwriter californiana, ritrovatasi a fare i conti con un inaridimento di
una vena autoriale fino ad allora dimostratasi più che fervida. Un'involuzione,
a livello di scrittura, avvertibile già entro i solchi dello stesso Days on Their
Side, sofferente d'una piattezza musicale a tratti esasperante, frutto d'una successione
di ballate dalla flemmatica indolenza. Un volontario monocromatismo compositivo
ben lungi da quanto lasciato trasparire dai due cangianti capitoli precedenti,
Rock'n'roll Pony e Miles Away, guadagnatisi al contrario, con la loro intrigante
miscela tra acustiche polveri rootsy e robuste intelaiature elettriche di matrice
rockista, diluite con l'ariosità del pop e solari armonie westcoastiane, il plauso
della critica.
Una Lucinda Williams intenta a reinterpretare il primigenio
songbook di Sheryl Crow, avvalendosi, come backing band, dei Jayhawks; ecco ciò
che traspariva dall'ascolto dei poc'anzi menzionati lavori in studio, capaci d'imporre
la stessa Villalobos quale nuova promessa dell'Americana. Promessa invero disattesa
proprio con l'opaco Days on Their Side, dove la nostra sembrava come essersi smarrita
in umbratili percorsi umorali, lungo i quali, perlomeno a giudicare dall'odierno
Sola, continua tuttora ad arrancare. Sette brevi narrazioni in
formato canzone, quelle approntate per l'occasione, attraverso le quali continuare
un personale discernimento emotivo, con la propria voce, il cui ruvido graffiare
rimanda all'altrettanto roca vocalità di Lucinda Williams, come ideale fulcro
narrativo. Intorno ad essa si accentrano gli spunti musicali di un manipolo di
validi musicisti, tra i quali spiccano il vecchio sodale Kevin Haaland, alla sei
corde elettrica, ed Eric Heywood, già con Son Volt e Ray LaMontagne, alla
pedal steel.
Proprio lo scorrere sulle corde dello slide di quest'ultimo
arricchisce, con gusto ed eleganza, il languore agreste di Come
Undone, per poi dettare i tempi nel disteso valzer elettrico di una
Wandering By pregna del lirismo della Mary Gauthier più laconica, profondendosi
infine in vellutati svolazzi armonici nella conclusiva Walk
Away, splendida pur nel suo minimalismo arrangiativo. Con le livide
Everything I want e Tears Gone By, cominciano ad avvertirsi invece
i limiti strutturali di una forma canzone tendente troppo spesso, nel suo sonnolento
svolgersi, verso il tedio. Non va meglio quando la nostra tenta di riappropriarsi
della luminescenza country rock degli esordi, vedasi Tailights
e Hold On To Rockets, ricorrendo ad un canovaccio,
partenza attendista seguita da una straripante esplosione melodica, un po' troppo
di maniera. Un ritorno sulle scene, quello della Villalobos, tra poche luci e
molte ombre, condotto con il passo incerto di chi ha attraversato un momento difficile,
avente lasciato ferite, emotive ed autoriali, non ancora del tutto rimarginate.