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by night di
Fabio Cerbone (30/01/2016)
Strano,
o forse no, visto un mercato tanto più agonizzante quanto più diviso in mille
nicchie, ma ci saremmo aspettati ben altre attenzioni per il californiano Korey
Dane, nella sostanza ignorato da qualsiasi testata o sito coinvolto con l'Americana
nel 2015. Noi compresi, sia chiaro. E se state pensando che l'indifferenza generale
per il suo Youngblood, pubblicato lo scorso ottobre, sia tutto sommato
giustificata da una musica trascurabile aspettate un momento: certo non stiamo
parlando del nuovo Ryan Adams, peraltro un termine di paragone ricorrente nelle
atmosfere di questo Youngblood, ma neppure di un talento fasullo.
Quello
che colpisce è soprattutto il mancato richiamo per i nomi coinvolti nel progetto,
che pure non si saranno scomodati per un tozzo di pane: la produzione di Tony
Berg (Aimee Mann, Edie Brickell), il missaggio curato da Tchad Blake, e ancora
la steel guitar di Greg Leisz e piano e organo nelle mani di Patrick Warren, nomi
che dovrebbero dire qualcosa a chi frequenta certa canzone d'autore americana
al confine fra tradizione, moderno folk e pop di qualità. Sono le stesse coordinate
sulle quali si muove Korey Dane, voce sussurrata, toni da crooner notturno, un
po' Ray Lamontagne senza afflato soul e con meno raucedine. Le sue ballate accolgono
la poetica del più classico songwriter intimista, confessioni che sfiorano un
brillate folk rock (Jules Verne in apertura,
lo scintillio byrdsiano di I'm Your man) e
si sintonizzano sulle frequenze dell'Americana post Ryan Adams (lo sciolto country
rock di Lousiana Dance), come accennato in precedenza. Cresciuto artisticamente
nell'area di Long Beach, dopo un lungo peregrinare nel sud della California al
seguito della famiglia, il venticinquenne Korey si è fatto notare al festival
di strada "Buskerfest" nel 2010, esordendo con le riflessioni acustiche
di Loomer, disco indipendente che lo ha portato alle attenzioni dei media locali.
Youngblood è opera per sua natura più ambiziosa, pur conservando l'impronta
folk di partenza: presentata alla stampa lo scorso ottobre presso il Teatro Lirico
di Los Angeles, con una band guidata dal collaboratore Aaron Embry, si muove spesso
sui binari di un canto carezzevole, bisbigliato, un leit motiv in diversi episodi
dell'album, tra cui Let It Be Just for Fun, Little Dream, Pony
& the Kid, ballad a volte dal tocco jazzato, raffinate nella ricerca di uno
spunto musicale dettato da chamberlin, harmonium o mellotron, strumentazione meno
usuale per un disco "da cantautore". L'effetto a volte tende a sciogliere
troppo la tensione, spegnendo l'entusiasmo strada facendo: è un peccato che potremmo
anche imputare all'inesperienza, forse persino alla voglia di crogiolarsi in certe
ambientazioni sonore da crepuscolo (Thieves, il finale con The
Lion & The Keeper, la bella calligrafia di You'll
be Had), ma è presente un'innegabile pasta musicale, la stessa che
in Heaven Won't Let Me In sfiora un pop rock adulto che ricorda il migliore
Freedy Johnston (lo ricordate anche voi?).