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euro americana di
Davide Albini (08/07/2016)
Cercando
di mantenere il giusto senso delle proporzioni, potremmo definirli una specie
di "supergruppo" della scena roots olandese. Sicuramente si tratta di
quattro musicisti dal lungo curriculum, anche internazionale, che hanno unito
le loro qualità e la passione comune per il rock delle radici americano, in questo
progetto chiamato Hidden Agenda Deluxe. Qualche nome potreste averlo già
incrociato nel vostro percorso di ascoltatori: BJ Baartmans è per esempio
un ottimo chitarrista, che spesso ha accompagnato e persino prodotto alcuni interessanti
songwriter, fra gli ultimi la rivelazione David Corley. È proprio con la band
di quest'ultimo che lo abbiamo visto in azione anche nei recenti tour italiani.
In passato Baartmans aveva collaborato con Jeff Finlin e Iain Matthews, oltre
ad avere pubblicato la bellezza di undici dischi solisti, sia in lingua olandese,
sia in inglese, diventando, attraverso il suo studio di registrazione personale,
uno degli strumentisti più richiesti in madre patria.
Il principale partner
artistico nella Hidden Agend Deluxe è l'amico Eric Devries: i due hanno
già lavorato insieme in passato e Devries può contare su una carriera partita
negli anni Novanta con The Big Easy e proseguita poi con tre album solisti, ben
accolti dalla stampa locale. Completano il quintetto il piano e organo di Rob
Geboers, il basso di Gerald van Beuningen e la batteria di Sjoerd van Bommel,
altri esempi di navigati musicisti di area folk e roots, che allargano le influenze
di un disco come Pan Alley Fever. La caratteristica dei tredici
episodi mi pare infatti una vesatilità di umori e opportunità, che pescano a piene
mani dalla tradizione americana, passando dalle radici blues e country di brani
quali Tulsa Shining e Good Oneliners
alla più attuale sensibilità Americana: spunti soul e profumi sudisti in Shine,
Don't Give Up Hope o I Don't Even Need You (To Bring Me Down), un
mix fra The Band e Little Feat come padri ispiratori, la ricetta della Hidden
Agenda Deluxe è senz'altro intrigante.
I pregi evidentemente sono le qualità
dei singoli e il gusto negli arrangiamenti, oltre alla scelta di cantare e comporre
in tre: Baartmans, Devries e anche il batterista van Bommel contribuiscono democraticamente
al repertorio, nonostante i brani più interessanti, per la stessa qualità vocale,
siano forse quelli di Devries, tra cui spicca una Goodby
Eternal Youth dai sapori westcoastiani, un folk rock delicatamente
psichedelico che riporta ai Byrds. Non a caso la band sceglie come unica cover
di interpretare il classico di Crosby, Long Time Gone,
qui in una versione rispettosa dell'originale, meno potente a livello strumentale,
ma raffinata nell'utilizzo dell'organo di Geboers e ulteriore dimostrazione del
talento dei musicisti.
Certo, non ci sono brani che spiccano sopra la
media e dal punto di vista della scrittura il gruppo paga la soggezione rispetto
ai modelli di riferimento: Pan Alley Fever però è un disco che mette voglia di
assistere a un loro concerto, segno che la sintonia musicale è l'arma migliore
a loro disposizione.