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Brooklyn dreams di
Gianfranco Callieri
(18/10/2017)
Prima
di diventare il marito di Donna Summer, Bruce Sudano, italoamericano di
New York, si è trovato a essere, in ordine sparso, un piccolo fisarmonicista prodigio
nella Flatbush degli anni '50, il pupillo di Tommy James (col quale scrisse, appena
ventenne, il suo primo successo), il tastierista degli Alive N Kickin' e l'architetto
sonoro dietro all'errebì in chiave glam/disco dei Brooklyn Dreams. Proprio con
questi ultimi, molto influenzati dagli umori della Grande Mela nella seconda metà
dei Settanta, compose per la collega di scuderia Donna Summer - la "regina" della
disco di quel periodo - la canzone Bad Girls, ossia il motivo trainante
dell'album più fortunato e venduto di costei (quattro milioni di copie dal 1979
a oggi). Impalmata la cantante nell'estate del 1980, il nostro fece in tempo a
pubblicare un ottimo lavoro solista - The Fugitive Kind (1981) - per poi dedicarsi
alla scrittura per conto terzi e alla gestione degli affari della consorte.
Nel
2004 tornò in sala d'incisione per un secondo disco a suo nome (Rainy Day Soul,
molto bello), ma è stato solo dopo la scomparsa della moglie, occorsa a dieci
anni di distanza da quella ulteriore produzione in veste di titolare, che la fame
di musica ha ripreso a farsi sentire in modo continuativo, portando quindi Sudano
a far uscire ben tre album in quattro anni. L'ultimo della serie si intitola appunto
21st Century World, è stato per lo più eseguito tra le mura di casa con
l'accompagnamento del chitarrista Randy Mitchell (qualcuno lo ricorderà come collaboratore
di Billy Bob Thornton) e la produzione di Mike Montali (Hollis Brown),
e sembra un aggiornamento immalinconito e infreddolito delle atmosfere esplorate,
ai tempi della bohème newyorchese del Greenwich Village, da cantautori beat, intellettuali
folk-rock e poeti sonori in erba.
Certo il mondo, da allora, è cambiato
parecchio, ma il primo a rendersene conto è proprio Sudano, a giudicare dalle
liriche di questi nove brani inediti (più un'azzeccata rilettura per sei corde
e percussioni della Tracy Chapman di Talkin' bout a revolution)
tanto irritato da una politica ormai esclusivamente orientata al culto del denaro
e all'accumulo di finanziamenti dal dubbio tenore etico quanto disilluso nei confronti
di nuove modalità di socializzazione basate su forme poco rassicuranti, nonché
pochissimo concrete, di realtà virtuale. Le sue canzoni, tuttavia, continuano
a disporre di una limpidezza melodica nella quale, a dispetto del disinganno espresso
dai testi, è difficile non riscontrare, di volta in volta, l'estro di un Ray Davies
(accade nella deliziosa Charade) o tracce
del magnetismo appartenuto al Bob Dylan apocalittico e malinconico di fine '80
(ascoltate l'intensa True Believer, col suo telaio elettroacustico perforato
da un cupissimo violino).
Nostalgico ma non sconfitto, raccolto ma non
gracile, il Bruce Sudano di 21st Century World possiede il respiro dei cantautori
rock cresciuti nelle grandi metropoli americane del secondo dopoguerra, tanto
che Common Sense, When Cinderella Dies o Coney
Island Days, con i loro scatti di vita urbana, il loro romanticismo
ora elettrico ora più folkie, non avrebbero sfigurato in un disco di Garland Jeffreys,
o del Willie Nile meno irruento. Rispetto a costoro, l'artista sconta soltanto
(almeno qui da noi) un piccolo deficit di notorietà, eppure il suo gesto, la naturalezza
con cui un'opera così densa di colloqui interiori, ricordi e osservazioni personali
sa dar voce anche all'immaginario degli ascoltatori, sprigiona in fondo lo stesso
calore.