Non succede sempre, ma in questo undicesimo lavoro
di Rupert Wates, londinese trapiantato da anni a New York e con
il ventricolo sinistro puntato verso il Canada, l’artwork di copertina
è fedele al contenuto. Indizio n. 1: nel bosco notturno tratteggiato a
china l’autore è appoggiato ad un tronco e tiene stretto un liuto. Indizio
n. 2: l’oscurità è interrotta da una macchia di luce al cui interno giovani
figurine danzano sprigionando euforia. Indizio n. 3: sia il lettering
sia l’elemento decorativo che completano la cover sono mutuati dal mondo
vegetale e parlano di grazia.
Il liuto. Per godersi questo lavoro occorre amare il suono degli strumenti
acustici a corda, la chitarra sopra tutti e apprezzare il confluire leggero
di una traccia in quella successiva, visto il frequente ricorso al medley.
Ombra e luce. Nel disegno l’autore è accasciato nell’oscurità, quasi a
volersi identificare nel cantore senza volto di cui è disseminata la classicità
e cede volentieri la scena ai ragazzi che danzano nella luce. E’ così
che si spiega il titolo ecumenico dell’album, nonché l’attitudine che
Wates attribuisce alle sue tracce: “Music of the people, by the people,
for the people”. Il ritornello della title track esprime un concetto
di questo tenore: “Posso soltanto cantare la mia canzone per la gente,
con amore”. E se non siete intolleranti al glucosio, sentite cos’altro
soggiunge: “Questo album è una love song to humanity”.
Poi ci sono il lettering e il ramoscello decorativo. Che ci stanno bene
e soprattutto sono in congruenza millimetrica con il contenuto. Perché
questo bardo degli anni duemila è il Guido Guinizzelli del fingerpicking
e le sue ballate sono Dolce Stil Novo rivisitato. Sono gentili, ecco.
In Spanish Galleon pizzica la sua
Lowden un po’ come Edward Baird sollecitava le corde del liuto con gli
Amazing Blondel e basta prestare attenzione a Thirthy Thousand Guineas
(A Smaggler’s Tale) per accorgersi che la sua abilità tecnica non
è da meno. E The Dance of Joy, che
chiude il disco piazzandosi tre le tracce migliori, vira ancor più decisamente
verso leziosità elisabettiane, rammodernate però da controcanti femminili
che nelle note di copertina vengono identificati in backing voices (friends
and family).
Per calarci più a fondo nel contenuto, questi nuovi brani rappresentano
il ritorno di Wates alle radici dell’English Folk. La maggior parte di
essi poggia su antiche armonie della tradizione inglese, liberamente adattate;
narrano di amanti abbandonati, soldati in balìa di venti di guerra e marinai
su galeoni pirata. Storie talvolta cupe, con derive sanguinose, che sanno
dispiegare la loro forza narrativa nel breve arco di tre-quattro minuti,
facendosi bastare una line-up essenziale: un timido violino sbuca in Ullswater
Cove e All Fair Ladies s’inventa un call and response con Rorie
Kelly. Tutto qui, zero artifici, nessun orpello. Non è difficile intuire
affinità tra Rupert Wates e altri musicisti, albionici e non. Per
esempio di Allan Taylor possiede la compostezza compositiva, anche se
gli manca l’affondo lirico; la voce pastosa ricorda invece il giovane
John Martyn, ma non può avvalersi della poliedricità timbrica dello scozzese;
in To the Sea si percepisce Bruce Cockburn, quello chitarra e voce
degli esordi, tanto per l’impostazione vocale quanto per l’attitudine
armonica. E perché non Robin Laing… o John Renbourn…
Potremmo continuare all’infinito nel gioco dei rimandi, tenendo comunque
presente che se un musicista mostra analogie con alcuni suoi colleghi,
non è necessariamente un male. Discorso che vale in particolare per il
brano più riuscito della raccolta, quel The North
Road il cui testo da murder ballad saltella su una gamba sola
su un unico accordo, scartando di poco ora alla destra ora alla sinistra
di un’immaginaria linea di gesso tracciata sul cemento, come nei giochi
infantili di un tempo. E a proposito di questa canzone passatemi un ultimo
accostamento: qui è Nick Drake a palesarsi, quello che mugugnava gli ammonimenti
di Know su due sole corde di chitarra. E allora metto sul piatto
Pink Moon e benedico le affinità.