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from our living room to yours di
Gianfranco Callieri (24/04/2013)
Chissà
se Anders Parker, da non molto tornato a risiedere nella nativa Burlington,
Vermont, dopo una vita passata a New York, ripensa mai ai tempi in cui, oltre
a prestare la sei corde alle imprevedibili stramberie indie degli Space Needle,
guidava una grande rock band denominata Varnaline ("fa rima con gasoline", benzina,
era solito specificare). Titolare di cinque dischi, almeno due dei quali - l'omonimo
Varnaline del '97 e, nello stesso anno, l'extended acustico A Shot And A Beer
- letteralmente spettacolari per chiunque, in quel periodo, nutrisse un po' di
nostalgia dei vecchi Dream Syndicate, quel gruppo sembrava a dir poco destinato
a lasciare una traccia indelebile nel firmamento del rock'n'roll. Non so perché
mi immaginavo il Parker alto, biondo e lungocrinito come un dio nordico piombato
nei negozi di dischi per rinnovare con furia viscerale e romanticismo di strada
l'epica del guitar-rock. Anni dopo l'ho invece scoperto alto, sì, ma quasi pelato
e dalle fattezze anzitempo invecchiate; soprattutto l'ho scoperto incostante,
mercuriale, quasi capriccioso nella preparazione e nel repentino disfacimento
dei progetti più disparati.
Difatti nella sua carriera solista è successo
di tutto: sono apparsi gli omaggi a Woody Guthrie e i dischi folk con Jay Farrar,
e accanto a loro, un intero album di "computer-generated laptop-pop" (l'estenuante
doppio Skyscraper Crow del 2009) e diversi episodi all'insegna di una canzone
d'autore, costruita attraverso serpentine di electronics né carne né pesce, tanto
curiosa, nelle premesse, quanto fragile e irrisolta nei risultati. Wild Chorus,
che di "selvaggio", a scanso di equivoci, non ha proprio nulla, è accreditato
a Anders & Kendall, ovvero Parker e l'amica di lunga data Kendall Jane
Meade (leader delle Mascott e già collaboratrice di Sparklehorse e Lloyd Cole),
ma non cambia di una virgola la sostanza, piuttosto impalpabile, di tutti gli
ultimi lavori del primo. Registrato nel nuovo studio domestico di Parker, appunto
il Wild Chorus (da cui il titolo), ricorrendo esclusivamente a strumenti e apparecchiature
analogiche, l'album dispiega l'ennesimo catalogo di decorazioni sonore minuziose
e raffinate, in alcuni momenti più rootsy (nella discreta rievocazione westcoastiana
di Dreamers On The Ground) e in altri decisamente
pop (City Of Greats, un po' troppo rarefatta),
in certi frangenti vicine a un sadcore di impronta ambientale (la sognante Play
It, la più cupa Oh, Love) e in altre occasioni
attenta a citare con giudizio la dolcezza vintage degli Everly Brothers (The
Sun Will Shine Again Someday, che però finisce dalle parti di Neil
Young).
Tra le note di Wild Chorus, si sarà capito, c'è poco movimento:
giusto le ironiche movenze rockabilly di Let's Get Lost
e forse il folk-pop di Across The Years
provano, peraltro senza troppa convinzione, a rendere meno soporifero il resto
del programma. Trattasi tuttavia di lotta persa in partenza, visto che, da qualunque
parte la si giri, Wild Chorus riesce a essere eccitante, proprio a voler esagerare,
quanto un disco degli Eels più sonnolenti. Probabilmente, a non essere più in
grado di sintonizzarsi su certe frequenze (così deboli e svogliate da somigliare
a dispacci spediti più per abitudine che per necessità creativa), è soltanto chi
vi scrive. Eppure, a maggior ragione di fronte a opere come Wild Chorus, monodimensionali
e scricchiolanti, con l'intorpidimento dei sensi a costituire quasi una cifra
di stile, risulta difficile non avvertire una fitta di nostalgia per altre epoche
e altre epiche, quando c'era chi alla musica chiedeva di esprimere non soltanto
l'effimero, l'inconcluso o l'indistinto, bensì tutte le emozioni possibili, anche
le più violente e spietate. Tanti anni fa - diciassette sono quelli che separano
l'uscita del primo Varnaline, Man Of Sin, da questo Wild Chorus - avrei
giurato tra costoro vi fosse anche Anders Parker.