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minstrel
boy revisited di
Gianfranco Callieri (31/08/2013)
Non saprei se definire l'attitudine di Scott Cook, giovanissimo e assai
produttivo folksinger canadese di Edmonton, antiquata o contemporanea. Da un lato
la cura, la generosità, l'impegno, immagino anche il dispendio economico profusi
nel realizzare un album come One More Time Around, racchiuso in
una bella confezione di cartoncino riciclato e accompagnato da un booklet di 36
pagine ricco di note, testi e persino spartiti, dichiarano uno zelo d'altri tempi.
O perlomeno la convinzione che il disco quale oggetto d'arte in sé meriti ancora,
nella propria messa in opera, una premura ormai sconosciuta persino ai pochi superstiti
dell'epoca d'oro della discografia. D'altro canto, di fronte a chi si prende la
briga di riportare per intero Song Of The Open Road, una delle più belle
poesie di Walt Whitman, e scrivere un'introduzione di dieci pagine (!) fitte di
caratteri in corpo minuscolo per spiegare le premesse del suo lavoro, gli strumenti
dei quali si è servito per eseguirlo, le suggestioni assecondate o inseguite,
fanno anche pensare a un artista perfettamente consapevole di come, data la proliferazione,
in campo artistico, di nicchie sempre più microscopiche, tanto valga sbarazzarsi
di inutili pretese universaliste e giocare la propria partita dentro un campo
definito in modo talmente esatto da richiamare non il maggior numero di spettatori
possibili, bensì quei pochi sicuri e certi. Non so se un simile (auto)circoscriversi
rappresenti una risorsa o una sconfitta. In termini pratici dovrebbe costituire
un vantaggio.
Basta però fare un giretto sul sito di Cook per scoprire
che costui, prima di dedicarsi alla canzone d'autore in chiave folk, non solo
si è cimentato nel drum'n'bass e nel reggae (copie di questi vecchi progetti sono
peraltro disponibili gratis), ma ha pure fatto il maestro d'asilo in Tailandia,
è disponibile per concerti domestici (per i quali non richiede alcuna indennità),
scrive libri di poesia e si preoccupa di sostenere e diffondere le teorie di Noam
Chomsky, filosofo e attivista fra i più noti della sinistra americana. Appare
chiaro, quindi, che alla base dell'atteggiamento "etico" di Cook, alla radice
del suo intendere la lavorazione di un album come un momento di comunicazione
totale, da sfruttare appieno in ogni singolo dettaglio, non ci sono calcoli o
considerazioni commerciali, ma semplicemente una fiducia incrollabile (alcuni
potrebbero dire patetica, o ridicola: questione non di gusti, ma di come si guarda
alle cose della vita) nella forza espressiva, guaritrice quasi, delle canzoni
e dei loro raccoglitori.
Canzoni appunto all'insegna di un linguaggio
folk caldo, avvolgente e cremoso, come quello di un John Gorka contaminato dalle
speziature rock della heartland statunitense, come quello di un Peter Mulvey meno
liquido, acquatico e visionario, eppure in possesso di un'indiscutibile ricchezza
lirica e melodica. Si potrebbero citare, fra le occasioni più felici di One
More Time Around, il folk-rock solenne di Mama
Always Said, il paesaggio countreggiante di Among
The Trees, il country-soul delicatissimo di You
Don't Find Out In The End, i rintocchi di slide dell'onirica Use
Your Imagination, i profumi Sixties e i dolci colori pastello di
Broke, And So Far From Home, il fingerpickin' malinconico di un piccolo
capolavoro da qualche parte fra Paul Simon e Joni Mitchell intitolato The
Poet Game. Ma significherebbe fare un torto all'armonia complessiva
di un album dove l'atmosfera scaturisce in misura uguale da tutti gli elementi
che lo compongono. Uno di quelli, fin troppo frequenti quanto a ispirazione (dei
dischi tutti uguali di troppi folksinger con l'orologio biologico bloccato a quarant'anni
fa non se ne può proprio più, giusto?) e nondimeno difficili da trovare di questa
qualità, da ascoltare a occhi chiusi, assaporando la promessa di rivivere in mondi
aperti.