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rural
country di
Marco Poggio (26/06/2013)
"You can't judge a book by looking at the cover" cantava Elias Bates McDaniel,
meglio conosciuto come Bo Diddley. Niente di più vero, anche se, per quanto riguarda
l'omonimo debutto dei Danberrys, la copertina riveste un ruolo di notevole
importanza, se non nel dare un giudizio a priori sulla bontà della loro proposta
sonora, quanto meno nel farsi un'idea sulle coordinate stilistiche sulle quali
quest'ultima si attesta. Copertina che, a livello iconografico, riconduce ad un'arcaica
vita rurale, con un vecchio fienile in primo piano, non dissimile da quello presente
su di una recente fatica discografica di mastro Willie Nelson, dal titolo Country
Music, altrettanto esplicativo di quanto contenuto al suo interno.
E proprio
quest'ultima è la materia sonora che i due coniugi Dorothy Daniel e Ben
DeBerry (la cui unione dei cognomi dà vita alla loro odierna ragione sociale)
plasmano con perizia, ibridandola con scure trame folkie, per poi rinvigorirla
attraverso palpitanti pulsioni ritmiche, debitrici tanto verso il più ruspante
bluegrass quanto nei confronti di sincopate movenze di derivazione funk. Il tutto
suonato mediante strumenti acustici, con i due "titolari" impegnati, oltre che
al canto, alle sei corde, caparbiamente sostenuti dal contrabbasso di Jon Cavendish,
e dai ricami melodici del mandolino di Ethan Ballinger e del violino di Christian
Sedelmeyer. Un quintetto dall'impostazione "classica" quindi, almeno in base ai
canoni stilistici del genere proposto, tuttavia versatile nel suo passare, con
nonchalance, da ballate di crepuscolare fascino folk ad ariose fughe grassy. Versatilità
che trova la propria sublimazione in questo loro primo full lenght, che giunge
alle stampe dopo un EP, Company Store, e due successivi singoli; registrato
in due differenti studi tra il verde bucolico delle campagne del Tennessee.
Un
lavoro in grado non solo in grado di mostrare il livello di maturità raggiunto
dalla scrittura dei due coniugi, le cui penne si muovono armoniosamente su pentagramma
come le loro voci sulle splendide melodie contenute tra i solchi del medesimo
album; ma riesce altresì nel non facile intento di trasporre su nastro quell'aura
di genuinità che la loro musica irradia. Ne è esempio l'opener Here
We Go Round, deliziosa nella sua grazia folkie, arricchita da esili
echi gospel, dove emerge la dolente interpretazione vocale della Daniel, ulteriormente
acuita dai controcanti del proprio consorte. Voci che si avvicendano nell'altrettanto
raccolta Blow On Wind, per poi unirsi infine,
in enfatiche armonizzazioni, in Meet Me There,
inno cristiano del Diciannovesimo Secolo, opera della poetessa Fanny Crosby. Altrettanto
degni di menzione sono anche i brani dal più sostenuto incedere, come il caracollante
country'n'grass Big Rig, o una Rain In The Rock
dai sentori irish, fino alle cadenze funk della corale Come Give It, ulteriore
esempio dell'eclettismo di un quintetto, il cui debutto colpisce tanto per bontà
quanto per freschezza e vitalità. .